MACCHINA DEL TEMPO APRILE 2006, 16 marzo 2006
Coraggioso come solo un vero corso poteva essere, intelligentissimo, orgoglioso, estremamente sicuro di sé, dotato di un forte senso dell’onore e di una straordinaria inclinazione al comando, Napoleone era uno stratega e un leader nato, predestinato (ne era convinto) a grandissime vittorie in tutta Europa (che avrebbe voluto unire sotto un’unica bandiera) e magari in tutto il mondo
Coraggioso come solo un vero corso poteva essere, intelligentissimo, orgoglioso, estremamente sicuro di sé, dotato di un forte senso dell’onore e di una straordinaria inclinazione al comando, Napoleone era uno stratega e un leader nato, predestinato (ne era convinto) a grandissime vittorie in tutta Europa (che avrebbe voluto unire sotto un’unica bandiera) e magari in tutto il mondo. Ufficiale all’età di 16 anni e 15 giorni e generale di brigata a 24 anni, Bonaparte aveva carpito con uno studio attento i segreti di Annibale e Alessandro, e aveva capito che la padronanza dell’artiglieria permetteva di controllare qualsiasi situazione. La sua smodata ambizione e il suo desiderio di offrire onore e gloria al popolo francese lo trascinarono in una serie infinita di battaglie, motivate da nobilissimi ideali e finanziate con tasse insostenibili, che lasciarono sui campi di tutta Europa non meno di cinque milioni di morti, travolgendo nazioni e regimi (nella sola campagna di Russia perse 500 mila uomini dei 600 mila al suo seguito). A Nicola Zotti, esperto di strategia e storia militare e responsabile del sito www.warfare.it, Appuntamento con la storia chiede di fare chiarezza su un personaggio che ancora oggi fa discutere tattici e storici. Si parla spesso di genialità militare di Napoleone. In che cosa consiste? «Dal punto di vista della teoria militare, cioè della genialità sul campo di battaglia, dopo Annibale praticamente nessuno ha inventato più niente, nemmeno Napoleone. Esisteva già tutto, perché in fondo le regole del gioco sono sempre le stesse. Napoleone, poi, impiegò i sistemi tattici, quelli che regolano i movimenti delle truppe, che si erano andati perfezionando nel Settecento. Piuttosto il suo merito è stato quello di riuscire a mettere in pratica quanto era stato teorizzato da altri». Può entrare nel dettaglio? «Il concetto di fondo è che si deve essere così intelligenti da costringere il nemico a fare ciò che noi vogliamo, innescando in lui i meccanismi psicologici e i movimenti che poi lo facciano cadere in trappola. Alessandro Magno, ad esempio, era abilissimo nell’opporre forza a debolezza: nell’individuare il punto debole del nemico per colpirlo in modo risolutivo. Annibale e Napoleone, e pochi altri comandanti nella storia, andarono oltre: creavano la debolezza dove apparentemente non c’era. Per riuscirci, però, non è sufficiente il genio, ma è necessario un elemento essenziale». Quale? «Disporre del ”materiale umano” adatto. Gli strateghi del ’700 non avevano fiducia nei loro subordinati, non potevano contare su quel substrato sociale, quell’ambiente, quella mentalità che invece venne a crearsi nella Francia postrivoluzionaria. Napoleone seppe approfittare magistralmente dell’adrenalina sociale sviluppata dalla Rivoluzione francese per fondare il suo impero. Capì che in situazioni come quelle ci sono persone e ceti che vogliono emergere e hanno bisogno di qualcuno che catalizzi queste loro energie. E la sua ambizione si sposò perfettamente con queste esigenze». Cosa significò questo dal punto di vista militare? «Napoleone, come tutti i grandi comandanti, dovette circondarsi di classi dirigenti come quella dei marescialli, gente abituata a rischiare la vita e a rischiarla volentieri per chi sapeva alimentarne le speranze di promozione sociale. E Napoleone, che era dotato di un carisma naturale consolidato sul campo di battaglia, aveva saputo convincere migliaia di soldati a combattere e morire per lui. Questo significava poter contare su un esercito affidabile, di cui conosceva perfettamente pregi e limiti, in grado di mettere in pratica piani strategici e di battaglia molto complessi. Quindi una somma tra il suo talento di comandante e un esercito di prim’ordine». Oggi la tecnologia è diventata più importante della strategia? «Al contrario. Da sola la tecnologia non fa vincere le battaglie. I problemi sono tutti umani. Alfred Thayer Mahan, grande studioso di strategia navale, più di un secolo fa scriveva che ”storicamente, buoni uomini su navi deboli hanno la meglio su uomini deboli su navi buone”. Il punto non è chi possiede la tecnologia migliore, ma chi e come la usa: se i soldati hanno ottimi fucili, ma poi scappano, non potranno mai vincere. Napoleone stesso aveva il materiale umano migliore, non i migliori fucili. Di per sé la superiorità tecnologica non garantisce una supremazia sul campo di battaglia, né supplisce alla mancanza o ai difetti di una strategia. Anzi, spesso produce un ingannevole senso di superiorità che può portare a commettere errori fatali. Nell’arte militare la tecnologia può essere un trucco, un succedaneo. I carri armati francesi o quelli russi della Seconda guerra mondiale erano dello stesso livello, se non migliori di quelli tedeschi, ma i tedeschi avevano una tattica vincente». Qual è allora il vero problema? « avere i comandanti e i sottufficiali più preparati. E per questo Napoleone vinse in modo netto le guerre d’Italia e quelle del 1805 e del 1806. Poi, proprio in queste campagne e nelle successive, morirono talmente tanti dei suoi soldati e dei suoi quadri, che il differenziale di qualità con i nemici finì per scomparire: per l’ambizione di Napoleone la Francia si dissanguò con quasi un milione e mezzo di morti e dispersi, per non parlare degli italiani, degli olandesi, dei polacchi e di tutti gli altri popoli che combatterono per l’Imperatore. Non si può abusare dei propri uomini, per quanto preparati». C’è una ”lezione napoleonica” che anche gli strateghi contemporanei dovrebbero mandare a memoria? «Dobbiamo distinguere l’uomo Napoleone dalle sue imprese militari. Meglio che nessuno mai (non solo un militare) si senta un ”Napoleone”. Il famoso generale messicano Alfonso Lopez di Santa Anna lo ammirava talmente da imitarlo in ogni caso: ma non poteva in questo modo trasferirne su di sé anche l’intelligenza militare, come dimostra ampiamente l’insensato attacco ad Alamo contro i texani. Semmai lo studio della storia e delle campagne napoleoniche può dare ai militari (ma non solo a loro) l’umiltà umana necessaria ad affrontare una professione tanto difficile e anche un’inesauribile fonte di ispirazione e di ”esperienza pregressa” per affrontare le situazioni della guerra di oggi, che comunque sono nuove e diverse da quelle del passato».