Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  aprile 18 Giovedì calendario

Che cosa ricorderemo dello sciopero del 16 aprile 2002

Il 16 aprile tra vent’anni, Corriere della Sera, giovedì 18 aprile 2002 Volevo capire dov’ero il 25 giugno 1982, giorno del grande sciopero generale in Italia. Non l’ultimo: il penultimo. Ho scoperto che a 25 anni non tenevo un’agenda. Ho trovato però foto e appunti da cui risulta che avevo i capelli neri e una motocicletta grigia (non viceversa, come oggi); che citavo Battiato e Pavese; che compilavo elenchi («Mi piacciono: i carciofi, i caffè all’aperto, Londra e Ferrara, il romanico, i fiumi. Non mi piacciono: il gioco delle carte, Moravia, i francobolli, gli aperitivi, il reggae»). Ho accertato inoltre che non avevo una fidanzata. In compenso, avevo progetti per l’estate. Al governo c’era Giovanni Spadolini, che mi piaceva perché somigliava al budda-con-orologio che tenevamo in cucina. Lo sciopero era contro la disdetta della scala mobile, e non sembra aver lasciato tracce, nei miei appunti dell’epoca. Forse non ero abbastanza interessato alla politica, che mi aveva incuriosito al liceo e nauseato all’università. Forse quel venerdì di giugno mi era sembrato solo una domenica con un nome diverso. Oppure, semplicemente, quello sciopero mi risultava incomprensibile. Dicevano che, rinunciando alla scala mobile, sarebbe crollato il mondo. Non è accaduto. È crollata, in compenso, l’inflazione. Mi domando cosa ricorderanno tra vent’anni, del grande sciopero del 16 aprile 2002, i giovani italiani. Quelli che somigliano un po’ al ragazzo che ero: quelli che in piazza con una bandiera, di qualunque colore, si sentono vagamente ridicoli. Quelli che non sono meglio o peggio degli altri. Ma diffidano delle promesse dei governi e dei comizi dai palchi. Ricorderanno, sono convinto, uno sciopero contro Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio. Ricorderanno che milioni di italiani hanno voluto gridargli, tutti insieme: «Non ci fidiamo di te». Opinione legittima. Ma probabilmente inutile, in questa seconda primavera del secolo. Utile sarebbe invece decidere come svecchiare il mercato del lavoro: senza che nessuno si senta imbrogliato, possibilmente. Non c’è dubbio, infatti, che presto o tardi in Italia «dovremo sostituire le tutele mediterranee (posto a vita per il capofamiglia) con tutele di tipo nordeuropeo (sistemi formativi e informativi efficaci, ammortizzatori sociali dignitosi e universali)». Lo ha scritto su ”Repubblica” Michele Salvati, ex parlamentare diessino. Non Bobo Maroni in una domenica di pioggia su Varese. Vogliamo fingere che non sia così? Benissimo. Continuiamo pure a rifugiarci nelle dichiarazioni, e a bisticciare intorno a dati che sappiamo fasulli. Dicono le statistiche: solo il 54 per cento dei connazionali in età lavorativa è nel mercato del lavoro (record negativo europeo). Dice l’esperienza: molti altri, trascurati e vulnerabili, vagano ai margini di quel mercato (record di ipocrisia italiano). Questo magari fa comodo ad alcune imprese. E non dispiace ai grandi sindacati, per cui il principio è salvo. Così gli iscritti - il 55 per cento sono pensionati, erano il 22 per cento nel 1985 - non si lamentano. I giovani, forse sì. L’ impressione, infatti, è che si trovino tra l’incudine e il martello. Da una parte, l’illusione di un lavoro a vita (che spesso non c’è, e magari non vogliono). Dall’altra, la prospettiva di un precariato perpetuo (e non è una bella prospettiva). Esistono altre soluzioni? Certo che esistono. Basta cercarle, e smetterla di parlare per slogan. Gli slogan infatti movimentano i cortei e inumidiscono gli occhi. Ma lasciano i ragazzi a bocca asciutta. A loro, chi ci pensa? Ci pensassero i sindacati, sarebbero meno conservatori e più costruttivi. Ci pensasse la sinistra, tornerebbe a ragionare con la propria testa, invece di appaltarla a chiunque sia in grado di riempire una piazza. Ci pensasse Berlusconi, come dice, dovrebbe convincere gli italiani - tutti, anche quelli che non l’hanno votato - che possono fidarsi. E non c’è riuscito. Ecco cosa scopriranno, a 45 anni, i venticinquenni del 2002. Scopriranno che quel 16 aprile era una domenica caduta di martedì; che avevano i capelli neri e la motocicletta di un altro colore; che compilavano elenchi; che magari non avevano la fidanzata ma, in compenso, cominciavano a fare progetti per l’estate. Beppe Severgnini