varie, 15 marzo 2006
NIFFOI
NIFFOI Salvatore Orani (Nuoro) 19 febbraio 1950. Scrittore. «’Sono un ossimoro ambulante”, dice di sé [...] lanciato da Adelphi come caso editoriale. Figura balzacchiana nata nelle viscere della Barbagia, è uno strano impasto di terra rocciosa e suggestioni letterarie, granito millenario e fragili creature di carte, come ibridata appare la sua lingua che mescola un italiano sanguigno limato dai maestri sudamericani con il sardo antico del padre cavapietre. Anche lo sguardo scorre fulmineo da furbizia a generosità, gioco e sapienza, lui eremita barbaricino pubblicato dalla casa editrice simbolo del glamour. [...] professore di scuola media, scrittore prolifico e straordinario - non spunta dai cunicoli misteriosi della Barbagia come un elfo selvatico. Così lo vorrebbe chi inclina a una lettura esotizzante dell’isola, enfatizzandone il fascino folclorico. Quella di Niffoi è una storia un po’ più complessa, a tratti anche dura e non priva di zone protette nella penombra, che egli stesso riassume con le parole di Thomas Bernhard: ”I semplici non sono così semplici come si crede, e i complicati non così complicati”. Semplice e complicato Salvatore - detto Bobore ”su professore” - lo è anche con i suoi studenti di Orani, sguardi vivacissimi che non perdono una battuta. Un’ora di lezione, condotta in un sardo veloce e musicale frammisto a un italiano più rado, è un viaggio ipnotizzante attraverso ”su significanti” e ”su significatu”, i sentimenti, l’amore, l’epica. [...] La Sardegna di Niffoi è quella arcaica e feroce della tradizione barbaricina, l’isola impastata di sangue, un filone mitico-identitario al quale appartengono sia La leggenda di Redenta Tiria, 40.000 copie vendute, sia [...] La vedova scalza, storia d’amore e morte tra il balente Micheddu e l’asprigna Mintonia [...] Quella di Mintonia Saviccu, vedova cruenta e vendicativa, è una storia vera? ”Sì, me la raccontò mio nonno quando ero bambino. Molte delle mie storie vengono da quelle narrazioni orali, recitate la sera davanti al camino. Vicende terribili e spaventose, morti che ritornavano a prendersi il maltolto, trame sepolcrali che si scalpellinavano nelle nostre teste di pizzinnos”. Nel lessico famigliare che traspare dai suoi libri quali sono le figure più significative? ”Mio nonno materno, Mannoi Tottoni, era il custode della polveriera, giacimenti di talco e pirite, santebarbare di tritolo e dinamite. C’è chi dice che il mio carattere esplosivo venga da lì. A lungo sono stato considerato il sovversivo, l’agitatore: contro la discarica abusiva come in difesa dei detenuti a Badu ’e Carros. Mio padre invece faceva il massaio, poche vacche e non di proprietà. Era abile anche con lo scalpello e la trachite, per questo lo chiamarono come tagliapietre. Un giorno mi portò in galleria, tra i minatori: se non studi, fizu meu, qui finisci [...] Da ragazzino caricavo pietre di trenta chili e dalla cava dovevo tornarmene a piedi: solo i cagareddas aspettavano il camion. Mi capitava anche di rimanere solo nella vigna a far la guardia alle vacche: un vaccino contro la paura, dicevano i miei. Quando ricompariva mio padre, era come vedere la Madonna di Medjougorij. Ma la vita in campagna ha rappresentato anche la scoperta di una magia profonda, la stessa che nutre le mie metafore. Non scriverei allo stesso modo se da bambino non avessi pescato a mani nude le tinche color rame e le trote dai riflessi di quarzo, legandomele alla cintola con rami di lentischio [...] Mastru Ramiro, un insegnante catalano che aveva scommesso con se stesso di far scrivere anche i muli. Mi diede le chiavi proibite per entrare nella grande nuvola dove non arrivava il mondo di sapori e colori che mi aveva consegnato mio nonno. Cominciai a viaggiare tra le pagine dei libri, a prendere in prestito le vite altrui. Forse quelle vite prese in prestito hanno salvato la mia [...] Da adolescente: scrivevo per non piangere. Poesie, soprattutto. Ebbi la fortuna di imbattermi in Zavattini, amico straordinario. Poi passai alla prosa: racconti brevi, tentativi di assemblare le poesie, ma il salto mi era difficile: detestavo le parti dialogate, mentre ero più facilitato nelle pagine descrittive. Avevo metabolizzato Grazia Deledda, amandone soprattutto quei quadri commestibili che sono i paesaggi: ti sembra di annusare la ginestra come di sfiorare la sagoma ruvida delle rocce [...] Orani ero impegnato più a protestare che a studiare, finché mio babbo mi spedì in Continente. Finii in una scuola privata di Roma: in un anno ne recuperai tre. Ancora prima di prendere la maturità, cominciai a frequentare la facoltà di Lettere, con Asor Rosa e De Mauro, Colletti e Romeo, Pedullà ed Argan. Scelsi di laurearmi con Carlo Salinari scrivendo una tesi sulla poesia dialettale sarda. Erano anche anni di militanza - siamo al principio dei Settanta - trascorsi in Potere Operaio e Servire il Popolo. Fu un periodo intenso e felice, tra escursioni politiche e sentimentali [...] Tornai a Orani, a lavorare in segheria. Da allora non mi sono più mosso. il complesso delle origini che ti fotte, lo stesso che ti trasforma in ossimoro ambulante. La nostra è una terra degli assoluti che ignora la vie di mezzo: la felicità è superlativa come lo è la disperazione. Da noi non esiste la malinconia”. [...] La leggenda di Redenta Tiria, porta una dedica misteriosa, ”all’amico fragile che la Voce si è portato via”. Quell’amico è Fabrizio De André. ”Fabrizio fa parte di quelle alchimie nascoste che viaggiano sotterranee nella mia vita. Ci incontrammo nel 1972 al teatro Spazio Zero, bastarono poche battute per capire di che pasta eravamo fatti. Ce la stavamo cercando, andando entrambi in ’direzione ostinata e contraria’, come direbbe lui. Ci siamo salvati grazie alle compagne della nostra vita. Per lui è stata determinante la musica, per me la letteratura”. [...]» (’la Repubblica” 11/3/2006).