Francesco Sisci La Stampa, 25/03/2002, 25 marzo 2002
In Cina chi donò il sangue si è preso l’Aids, La Stampa, lunedì 25 marzo 2002 Pechino. Il viaggio nella Cina dell’Aids comincia con il buio nel cuore
In Cina chi donò il sangue si è preso l’Aids, La Stampa, lunedì 25 marzo 2002 Pechino. Il viaggio nella Cina dell’Aids comincia con il buio nel cuore. Si prende il treno di notte dalla immensa spettrale stazione occidentale di Pechino, Xikezhan, il più grande monumento ferroviario dell’Asia che sforna e inforna decine di milioni di viaggiatori al mese. Lo scopo è arrivare, ancora di notte, in una minuscola fermata poco lontano da Zhengzhou, capitale dello Henan, la provincia forse con più siero positivi del Paese. Lontano da sguardi indiscreti alla partenza e all’arrivo, di nascosto. Un tassista ti prende con un segnale su una Xiali rossa, l’auto da mille di cilindrata più diffusa della Cina. L’autista è uno dei pochi adulti del villaggio ancora sani, il 40 per cento degli 800 abitanti sono tutti siero positivi, tutti in attesa di morire. «Si sta bene per mesi, anche anni, e poi ti viene la febbre alta la sera, hai la diarrea e allora lo sai che stai per morire e ti manca ancora un mese o un anno» racconta tranquilla una contadina robusta con le guance rubizze, infetta, lei come il marito, perché tra il 1993 e il 1996 ha donato il sangue all’ospedale del distretto poco distante. Al buio, in poche ore le case del villaggio sono passate in rivista. Solo i vecchi e i bambini appaiono salvi da questa epidemia creata dall’uomo per un misto di buona volontà, superficialità e cupidigia. «All’ospedale del distretto dicevano che non avevamo bisogno di lavorare, che potevamo vendere il sangue quante volte volevamo e con le nuove macchine avrebbero tolto le piastrine e i globuli rossi ma il resto ci sarebbe stato ridato» racconta senza ira la donna. Le nuove macchine, che separano gli elementi nobili dal plasma, erano la novità per aumentare la scarsa quantità di sangue donato nel Paese, ma avevano bisogno di tanta igiene e cura, che non c’è stata: al distretto pensavano di potere risparmiare i soldi della pulizia perché tanto nelle campagne della Cina profonda nessuno aveva l’Aids. Invece... Così oggi l’Aids si è diffuso a tappeto, non tra i seguaci del sesso libero etero o omo, o tra i tossicodipendenti, ma tra i più poveri del Paese, quelli senza altra speranza che quella di donare il proprio sangue. Così oggi ci sono interi villaggi che sono chiusi, in quarantena, dove nessuno entra e nessuno esce, dove gli abitanti dei villaggi vicini hanno paura di essere infettati. Ma la maggior parte di questi villaggi malati nel ventre nero del Paese, nello Henan, nello Hubei, ma anche nel Ningxia, nel Gansu, sono aperti, anche se nascosti, tenuti al buio. I contadini hanno formato reti di aiuto e solidarietà reciproca per chiedere assistenza al governo, ma l’assistenza è poca. «Gli ospedali da noi ci cacciano fuori appena sanno che abbiamo l’Aids, due pacchi di antibiotici e via. All’inizio dell’anno abbiamo organizzato una protesta a Zhengzhou e il governo ci ha dato due sacchi di farina a testa e quattro scatole di pillole» racconta il marito. Così lei, Qiao Hong è venuta a Pechino per curarsi. Qui in un ospedale del centro fa dei cicli di cura sperimentali con medicine tradizionali cinesi, ma sono cure costose. Suo cognato, anche siero positivo, non è riuscito a pagare la retta per la figlia alla scuola superiore e così lei ha smesso di studiare. Ora la donna sta pensando di tagliare il telefono per risparmiare i tre euro di bolletta al mese. Non ci sono cocktail di medicine che come in occidente rallentano il decorso medico, qui la maggior parte dei siero positivi muoiono non per la malattia in sè ma per infezioni mortali, per la debolezza del sistema immunitario. I soldi per le cure sono un’ossessione, ma lo è ancora di più il futuro dei figli. Quelli di Qiao Hong sono sani, di 8 e 11 anni, ma sono troppo piccoli per cavarsela da soli quando lei e il marito non ci saranno più. Lei si è rivolta a centri di adozione, ma le hanno detto che i bambini sono troppo grandi ed è difficile affidarli a una famiglia. Gli unici che potranno curarsi di loro sono i nonni, che sono però troppo vecchi. Medicins sans frontierés e altre organizzazioni umanitarie vorrebbero potere intervenire, ma le autorità sono riluttanti. C’è una questione di faccia da considerare, gli stranieri farebbero fare una brutta figura alle autorità. E poi c’è anche uno scontro sotterraneo, ma non troppo, tra governi locali e Pechino. Alcuni giornalisti cinesi, i primi a denunciare l’epidemia, hanno perso il posto al quotidiano locale dove lavoravano e oggi invece scrivono per lo ”Huaxia Shibao” di Pechino, il giornale controllato dal figlio di Deng Xiaoping, Deng Pufang, paladino dei diritti degli handicappati. Qiao Hong vuole luce, attenzione, tiene stretta la mano degli stranieri che spesso più dei cinesi osano stringerle la mano. Racconta che lei non ha paura, cosa potrebbe temere in fondo lei che non ha vita da rischiare? il governo, dice, invece ad avere paura. Le autorità del suo distretto la trattano come un’appestata, mentre leggende metropolitane raccontano di siero positivi che per vendicarsi della sorte attaccano, mordono, pungono, cittadini colpevoli solo di non essere malati. Ma queste storie sono difficili da confermare mentre è certa la paura dei sani verso gli infettati, 600 mila in tutta la Cina secondo le statistiche ufficiali, due milioni nel solo Henan secondo le cifre degli stessi malati. Da anni ormai certo, non si preleva più il sangue con le macchine, da un anno circa il governo ha cominciato una campagna contro la diffusione della malattia. Ma c’è ancora buio intorno al destino di Qiao Hong, affonda in secoli di paure contro le epidemie mortali, paura diffusa nella popolazione che non crede alle campagne di pubblicità progresso del governo e teme l’Aids come un orrore che avanza dal suo ventre povero, arretrato, verso la costa, verso Pechino e la sua monumentale stazione occidentale. Francesco Sisci