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 2002  aprile 15 Lunedì calendario

Gli indiani vogliono fare gli ingegneri perché pensano sempre ai numeri, la Repubblica-Affari & Finanza, 15 aprile 2002 Per diventare grandi nell’Information Technology non sono indispensabili buone strade né porti efficienti, che infatti l’India non ha

Gli indiani vogliono fare gli ingegneri perché pensano sempre ai numeri, la Repubblica-Affari & Finanza, 15 aprile 2002 Per diventare grandi nell’Information Technology non sono indispensabili buone strade né porti efficienti, che infatti l’India non ha. Quello che serve sono gli ingegneri, e di ingegneri l’India ne produce più di qualsiasi altro paese al mondo. Lo deve ai numeri, a Nehru e alle ambizioni delle mamme e dei papà della piccola e media borghesia di questo sconfinato paese. Cominciamo dai numeri, che sono la parte culturalmente più affascinante di tutta la vicenda. Ebbene, sembra che gli indiani abbiano i numeri nel sangue. Proprio i numeri, la matematica, logaritmi e algoritmi. Niente a che vedere con Euclide e con la geometria, è verso il calcolo che, a quanto sostengono intellettuali indiani e non, va la loro propensione. I numeri che usiamo oggi li hanno inventati loro, gli arabi ce li hanno portati, ma li avevano appresi dall’India. Indiana è l’invenzione dello zero e il suo utilizzo nella numerazione, documenti indiani plurimillenari già portano tracce di seni e di coseni. Roddam Narashima, che è uno scienziato aerospaziale e un grande affabulatore, mentre le pale del ventilatore girano lente per rompere l’afa del suo studio al National Institute of Advanced Studies di Bangalore, mi spiega dove sta la differenza: «Il meccanismo concettuale della cultura occidentale è assiomatico: di fronte a un fenomeno, dai greci in poi si tende a cercare la legge che lo spiega o che lo regola. Il meccanismo concettuale indiano invece è diverso, dei fenomeni non cerchiamo la legge, ma le regolarità, i ”pattern” , quello che ci consente di tradurli in numeri. La propensione è a capire le cose non attraverso le leggi che le regolano ma attraverso i numeri che le rappresentano». Non è una differenza da poco e, sempre secondo Narashima, spiega, insieme a tante altre cose, perché nel Medio Evo il progresso in occidente si è fermato, bloccato dalle sue ”leggi” diventate assiomi indiscutibili, mentre invece in Cina e in India si andava pragmaticamente avanti, salvo fermarsi poi quando l’occidente, superando quella gabbia, ha realizzato le sue rivoluzioni scientifica e tecnologica. [...] La sostanza che a questo punto ci interessa è che gli indiani hanno una diffusa propensione per i numeri. E questa è la base. Sulla quale si innesta il secondo fattore che ha fatto dell’India una immensa fabbrica di ingegneri. Il secondo fattore è la visione di Javaharlal Nehru, il successore del Mahatma Gandhi, il primo leader dell’India indipendente. Quando nel 1947 l’India smise di essere la perla dell’Impero Britannico e divenne una Repubblica, uno degli obiettivi che Nerhu pose alla sua gestione fu quella di avviare il più rapidamente possibile il processo di industrializzazione del paese al fine di renderlo autosufficiente. Per fare le fabbriche e farle funzionare ci volevano però gli ingegneri e Nehru decise di investire in quella direzione. Nacquero così molte facoltà di ingegneria nelle varie università del paese e soprattutto nacquero gli Indian Institutes of Technology, che a differenza delle normali università, che sono dei singoli stati, sono dei centri di eccellenza finanziati dal governo centrale e godono di larga autonomia. Ultimo punto, le famiglie. Per una famiglia di agricoltori i figli maschi erano l’assicurazione per la vecchiaia e ancora oggi molti genitori considerano che se i loro figli andassero a scuola sarebbe per loro una perdita secca. Nella piccola e anche piccolissima borghesia urbana è invece esattamente il contrario. L’assicurazione sul futuro è l’educazione dei figli, e infatti tra quelli che vanno a scuola è molto alto il numero di chi arriva al diploma. L’ambizione massima che un genitore piccolo o medio borghese possa avere per il suo figlio maschio è però che diventi medico o ingegnere, le professioni che danno la maggiore possibilità di trovare un buon lavoro e che godono del più alto riconoscimento sociale. E infatti i numeri sono impressionanti. Nel Karnataka, lo stato di cui è capitale Bangalore, ci sono 103 college di ingegneria che producono 30 mila laureati l’anno. La sola università di Bombay, un gigante con 350 mila studenti, la cui sede gotica è stata costruita nel 1857 come se invece del caldo e delle palme di Bombay sopra ci fossero i cieli grigi di Oxford, ha sette facoltà di ingegneria con 70 mila studenti e 10 mila laureati l’anno. Gli Indian Institute of Technology (IIT) naturalmente sono una cosa diversa. Quello di Bombay è un grande campus che sorge sulle rive del laghetto di Powai, poco oltre l’aeroporto. Per arrivarci dal centro della città si può prendere la strada che conduce all’aeroporto o quella che costeggia il porto, che è la più interessante. Per chilometri, sulla destra c’è il muro che delimita la zona portuale e sulla sinistra baracche, teli di plastica nera e ondulati, e non riesci a capire come sia possibile che da quello che sembra un inferno escano ragazzini vestiti con le divise della scuola e giovani donne splendenti di colori, con i fiori intrecciati nei capelli perfettamente pettinati. Gli slum si alternano ai quartieri sorti lungo la linea di un treno per pendolari e a brandelli di macchia dove pascolano mucche. L’IIT è nel mezzo di un agglomerato urbano fitto e disordinato, ma è come una città nella città. Tutti gli studenti e gran parte dei professori e dei dipendenti vivono dentro il campus, non c’è tempo né bisogno di uscire, dentro c’è persino un ospedale con 50 posti letto. Infatti il problema non è uscire: è entrarci. In tutta l’India di IIT ce ne sono sette, ciascuno dei quali accetta 500 iscrizioni l’anno. Mediamente fanno domanda in 150 mila che vengono selezionati così: un primo esame in luglio, con prove di chimica, fisica e matematica; i 20 mila migliori sono ammessi a un secondo esame, nel gennaio successivo, sempre sulle stesse materie ma a un livello più alto, attraverso il quale vengono selezionati i 3500 eletti. L’esame è nazionale e i 3500 che lo superano scelgono in base alla graduatoria e alle disponibilità in quale IIT andare e in quale area dell’ingegneria orientare i propri studi. Il costo che le famiglie devono sostenere è di 33 mila rupie l’anno, circa 800 euro, più 25 euro al mese per l’alloggio e la mensa. Ci sono borse di studio e altre forme di sostegno alle famiglie che non possono sostenere questi costi. I programmi e il livello qualitativo sono comparabili con quelli dell’MIT di Boston, o delle università di Berkeley e di Stanford. Il comfort no, anche se nelle residenze gli studenti hanno camere doppie, che entro tre anni dovrebbero diventare singole e ciascuna con una linea per connettersi con internet. Oggi per navigare si deve scendere nella sala computer che c’è al piano terra di ogni residenza. L’ ultima creatura dell’IIT di Bombay è la Kanwal Rekhi School of Information Technology. La sede è un modernissimo edificio costruito grazie al contributo di Kanwal Rekhi e Nandan Nilekani (l’amministratore delegato di Infosys), ambedue ex studenti dell’IIT che hanno fatto fortuna. L’ispiratore e direttore è Deepak Phatak. Aperto da pochi mesi dentro già ci sono un Compaq Lab per l’e-commerce, un Intel Enterprise Lab per l’educazione a distanza, un incubatore dove gli studenti che hanno idee e progetti possono cominciare ad avviare la loro impresa, mentre la scuola provvede a creare contatti con potenziali finanziatori. Una società nata dentro l’istituto cammina già sulle proprie gambe, un’altra sta per decollare. Intanto, con il coordinamento di Phatak, si fa ricerca applicata sul mobile, sulle tecnologie internet, sui cosiddetti ”embedded system” (sistemi inseriti all’interno per esempio delle macchine, di elettrodomestici, nelle smart card e così via) e si sta avviando un esperimento pilota di educazione a distanza con quattro città con collegamenti via satellite che consentono l’interattività. IIT e università tuttavia non bastano. Perché non tutti 120 mila ingegneri che si laureano ogni anno sono ingegneri informatici e perché non tutti lavoreranno nell’information technology; perché lo sviluppo che quell’industria ha avuto negli ultimi anni e si ritiene possa avere in futuro ha bisogno di figure anche a livelli intermedi. è la ragione per la quale a fianco dell’industria dell’information technology e ad essa strettamente collegata ne è nata un’altra, fiorentissima: quella della formazione alla information technology. Ci sono decine di società che formano ragazzi e adulti. La più grande probabilmente è la NIIT, che è stata fondata nel 1982, quando di computer in India se ne vendevano neanche duemila l’anno, tra l’altro perché nessuno sapeva usarli né come imparare a farlo. Oggi la NIIT è una società quotata che realizza il 55 per cento del suo fatturato di 270 milioni di dollari producendo software per i suoi clienti sparsi in tutto il mondo e il restante 45 per cento con le attività di formazione. Ha cominciato in India e ora gestisce, direttamente o in franchising, 2.700 centri di formazione in 33 paesi, dove fa corsi da un anno a quattro anni. Quello quadriennale costa in India 1.500 dollari l’anno e in Oman 6 mila (il corso è lo stesso ma diverso è il reddito della popolazione). Le ultime scuole la NIIT le ha aperte in Cina. «I corsi quadriennali sono frequentati quasi tutti da universitari - spiega Rajeev Katyal, responsabile del marketing della NIIT - non tutti possono studiare ingegneria, ma si prendono comunque una laurea per il prestigio sociale e il pomeriggio vanno ai corsi di formazione in information technology per trovare un lavoro». Marco Panara