Marco Magrini Il Sole 24 Ore, 03/04/2002, 3 aprile 2002
Oggi i brand rappresentano un terzo della ricchezza mondiale, Il Sole 24 Ore, mercoledì 3 aprile 2002 - Comprare è un po’ votare
Oggi i brand rappresentano un terzo della ricchezza mondiale, Il Sole 24 Ore, mercoledì 3 aprile 2002 - Comprare è un po’ votare. « come se nel mondo globalizzato ci fosse un’elezione al giorno, i cui esiti sono ben più attendibili di un’elezione politica ogni quattro o cinque anni». Rita Clifton, amministratore delegato della società di consulenza Interbrand, spezza una lancia a favore dei marchi, o dei brand, come ormai vengono chiamati anche in Italia. Gli stessi marchi che - stigmatizzati da No logo, il libro-manifesto di Naomi Klein contro la globalizzazione, ormai a sua volta globalizzato in diciotto lingue - sono finiti nel mirino di un dibattito etico, ulteriormente infiammato dopo gli eventi dell’11 settembre. Ma che risultano, alla prova dei fatti, solo minimamente scalfiti. «Ai consumatori i marchi piacciono - osserva Clifton - perché danno sicurezza. Ma sono anche oggetto del loro ”voto” quotidiano: se un marchio ”sgarra”, se tradisce la sua promessa di qualità, o se i consumatori lo criticano per un qualsiasi comportamento antietico, viene subito punito. E per l’azienda che l’ha inventato o l’ha comprato, sono guai». Si dice che il branding moderno l’abbia inventato la Procter & Gamble negli anni ’30 - oggi detentrice di 350 marchi come Tide, Pampers o Crest, la cui gestione è affidata ad altrettanti brand manager - ma anche che tutto sia cominciato 4 mila anni fa, quando gli egiziani cominciarono a marchiare il bestiame. Eppure, gli addetti ai lavori assicurano che, oggi più che mai, il branding ha un futuro roseo davanti a sé. «Tutto sta diventando un brand», commenta Bernd Schmitt, professore alla Columbia Business School: «Ho visto un concerto di Madonna a Berlino ed è palese che, dietro il suo modello di spettacolo, ci siano precise (e ammirevoli) scelte di branding». C’è chi stima che un terzo della ricchezza globale sia creata dai marchi, siano essi prodotti o servizi. «Se l’attuale tendenza andrà avanti - aggiunge Clifton - nel giro di 20 o 25 anni, questa quota potrà raggiungere il 50 per cento del prodotto lordo mondiale». La stessa Interbrand - principale società di consulenza del settore - compila ogni anno una stima sul valore economico, ancorché apparentemente intangibile, dei marchi. Al posto numero uno c’è la Coca-Cola, autentica celebrità in tutti e cinque i continenti, il cui solo brand (e senza contare i sottomarchi Fanta e Sprite) ha un valore stimato di 68,9 miliardi di dollari, oltre la metà dell’attuale valore attribuito all’intero gruppo di Atlanta dal mercato borsistico (130 miliardi). Ma quel che salta più all’occhio è che, nella lista dei dieci marchi più preziosi al mondo, nove sono americani. «Non c’è alcun dubbio - osserva ancora Rita Clifton - che i marchi forti appartengano alle nazioni forti». E forse anche il contrario: una nazione è forte perché possiede marchi forti. Il che depone a sfavore della corazzata economica europea, che annovera solo 30 marchi fra i primi 100 (quelli italiani sono tre: Gucci, Armani e Benetton), lasciando però un barlume di speranza per i futuri rimescolamenti delle carte in tavola. Qual è l’unico marchio non americano fra i primi dieci? Si chiama Nokia, l’azienda che - prima di trasformarsi nella più innovativa produttrice di telefoni cellulari, tanto grazie alla tecnologia che al design - era una delle tante cartiere finlandesi in crisi. Segno che osare si può. Ovviamente, visto che i consumatori votano ogni giorno, non si tratta di una classifica statica: anche un gigante come Coca-Cola ha visto il valore del proprio marchio ridursi in occasione di una disavventura commerciale in Belgio, che fece precipitare di quasi il 15 per cento il fatturato (o, se preferite, il consenso elettorale) del brand nell’intera Europa. In alcuni casi, com’è avvenuto alla Ford dopo i ripetuti problemi con gli pneumatici, il calo del brand value può avere riflessi duraturi. Il che risparmia in parte la Coca-Cola: secondo un recente studio di AcNielsen - che stima in 43 i marchi con una vera presenza globale e con un fatturato annuo sopra il miliardo di dollari - le bevande sono una categoria dominante, anche nel tempo. Proprio il contrario del vestiario che, come dimostra l’astro decaduto Levi’s, sembra avere molti più problemi nell’attraversare a lungo le fasi di transizione generazionale. Negli ultimi dodici mesi sono scomparsi marchi storici come Chiquita (finita in bancarotta) e Oldsmobile (cancellato dal mercato per decisione unilaterale della proprietaria, la General Motors). Per non parlare di Polaroid, un marchio che appena qualche anno fa appariva eterno e che invece è finito alle ortiche per colpa di un management che non ha saputo cogliere la nuova sfida della fotografia digitale, a dispetto dell’invidiabile posizione competitiva che vantava. Anche i marchi nascono, vivono e muoiono. E - come ben sanno gli strateghi del marketing - scherzare coi marchi vuol dire scherzare col fuoco. Viene in mente il caso della McDonald’s che, dopo aver deciso di tentare l’avventura alberghiera con i suoi due primi hotel in Svizzera, ha ben pensato di non arrischiare il suo nome, inventandosi il marchio Golden Arch Hotels (che richiama il logo della multinazionale del panino: due archi dorati a forma di ”M”). «Di fatto - osserva Jane Perrin, curatrice della ricerca AcNielsen - i marchi sono oggetto di una continua opera di riaggiustamento, quantomeno per stare dietro ai tempi che cambiano. E le principali tendenze del momento sono due: l’allargamento dei confini commerciali di marchi già consolidati (come Nivea, un brand che è oggi sfruttato su una vasta linea di prodotti) e l’adattamento del marchio alle tradizioni e ai gusti locali». In altre parole, anche i grandi brand stanno adottando la politica glocal: un po’ globali e un po’ locali. «Le formule delle Diet Coke - assicura la Perrin - vendute in America e in Europa sono leggermente diverse». Per non parlare di McDonald’s che, forse proprio in seguito agli attacchi dei no-global contro un simbolo riconosciuto dell’America, ha cominciato ad adattare i menù ai gusti locali (come l’uso del curry in Inghilterra) e ha lanciato campagne pubblicitarie per ribadire il proprio radicamento sui singoli mercati (come quelle sull’uso di carne francese in Francia) con risultati sorprendenti: secondo un recente sondaggio, è venuto fuori che una minoranza non irrilevante di consumatori inglesi crede che McDonald’s sia un marchio nazionale. Incredibile ma vero. E il futuro? Se sarà genericamente rosa, come assicurano gli esperti interpellati, è anche vero che non sarà tutto rose e fiori. Ormai è chiaro che la strategia del branding - al quale sono sempre più appese le sorti dei fatturati aziendali - non sarà lasciata ai soli esperti di marketing. Come insegna il caso Starbucks - la catena di caffetterie allargatasi da Seattle al mondo - gli investimenti in pubblicità possono essere secondari, se si pensa prima di tutto al cliente. I marchi sono come Roma: non si costruiscono in un giorno. Solo l’avvento di Internet ha saputo fornire un’eccezione: Amazon - il servizio di commercio elettronico più famoso del mondo anche se con i conti in rosso - è diventata un brand noto e autorevole in pochi anni. La verità è che il brand sta inglobando tutto: oltre al marketing, sta coinvolgendo ogni sfumatura della vita aziendale, nel disperato tentativo di coinvolgere anche la vita (ovvero le preferenze elettorali) dei consumatori. A patto di non farsene accorgere troppo. «Il vento di cambiamento che è soffiato sul mercato - conclude Rita Clifton - ha spinto i global brands ad essere meno arroganti: invece di osservare il pianeta Terra indistintamente dal satellite, oggi lo devono guardare dall’elicottero: per capire i singoli Paesi, i singoli consumatori e soprattutto per capire il mondo che cambia». Se è vero che ogni giorno i consumatori vanno alle urne, c’è poco da scherzare. Marco Magrini