Paolo Mastrolilli La Stampa, 26/04/2002, 26 aprile 2002
Le tette di Barbie e chi le creò, La Stampa, venerdì 26 aprile 2002 «Barbie ha sempre rappresentato il fatto che una donna può fare le sue scelte»
Le tette di Barbie e chi le creò, La Stampa, venerdì 26 aprile 2002 «Barbie ha sempre rappresentato il fatto che una donna può fare le sue scelte». Ruth Handler, la madre della bambola più famosa al mondo, non può più difendere questa filosofia con la sua voce. morta sabato sera, al Century City Hospital di Los Angeles, per le complicazioni di un’operazione al colon. Ma le polemiche, la gioia, le liti e il divertimento che ha provocato, restano un pezzo di storia. Ruth aveva 85 anni, ed era nata a Denver da una famiglia di immigrati polacchi. Il padre di cognome si chiamava Mosko, ed era un fabbro che aveva disertato dall’esercito russo. Lei era la più giovane di dieci figli e la più intraprendente. A 19 anni andò in vacanza in California e decise che non sarebbe più tornata. Convinse il fidanzato della scuola, Elliot Handler, a seguirla, sposarla nel 1938, e studiare design industriale. Quando Elliot si laureò, cominciarono a costruire suppellettili di plastica nel garage di casa: lui produceva e lei vendeva. Il sogno americano funzionava così, e nel giro di pochi anni l’azienda familiare aveva raggiunto un fatturato da 2 milioni di dollari. Nel 1942 i coniugi Handler si associarono con Harold Mattson, e dalla fusione dei nomi dei due uomini, Matt ed El, nacque il marchio di quella che sarebbe diventata la più grande compagnia mondiale di giocattoli. La Mattel aveva cominciato coi pupazzi tradizionali, e la fissa di Elliot era una bambola parlante, che sarebbe poi andata sul mercato come Chatty Cathy. Quindi quando all’inizio degli anni Cinquanta Ruth tirò fuori l’idea di una bambola adolescente, con tanto di occhi azzurri e seno spettacolare, i maschi la bocciarono: «Quale madre vuoi che compri alla figlia una tettona così?». Ma Ruth aveva visto che sua figlia Barbara amava giocare con le figure di donne adulte ritagliate dai giornali, e quindi non mollò. Nel 1956, durante un viaggio in Germania, vide in vetrina una bambola chiamata Lilli, che sembrava una ballerina del varietà. La portò trionfalmente in California, e pretese che la Mattel avviasse un progetto simile. Così nel 1959, all’American Toy Fair di New York, esordì Barbie, battezzata col nome della figlia di Ruth. Nel primo anno vennero vendute 351.000 bambole, a 3 dollari l’una, e 43 anni dopo il totale è salito a oltre un miliardo di esemplari, entrati nelle case di 150 paesi. Un successo clamoroso, che ha aperto a Barbie, Ken e gli altri, le porte della Smithsonian Institution di Washington, un posto nella «capsula del tempo», seppellita nel 1976 con tutte le icone americane, svariati libri, e l’attenzione di artisti come Andy Warhol. Il trionfo però ha portato anche le polemiche. Uno scienziato aveva calcolato che a grandezza naturale, le misure di Barbie sarebbero state 39-18-33: una bambina su 100.000 poteva sperare di crescere così, e quindi le femministe accusarono la bambola di alimentare aspettative irrealistiche, anche perché faceva la modella ed esaltava l’immagine della donna oggetto. Allora Ruth rispose producendo la Barbie astronauta, atleta e veterinaria, aggiungendo un tocco multietnico con quella nera. La sua idea era che in realtà «la bambola aiutava le bambine a proiettare i loro sogni da adulti, e quindi a sviluppare e realizzare le loro scelte». Nessuno provava questa filosofia meglio di Ruth, imprenditrice e madre, quando l’immagine dominante della donna era quella della casalinga. La sua carriera entrò in crisi nel 1970, quando un tumore la costrinse alla mastectomia. Cinque anni dopo, lei e il marito erano fuori dalla Mattel. Ma invece di rassegnarsi, Ruth creò una nuova azienda, la Ruthton, per costruire protesi per le donne colpite dalla sua stessa malattia. Anche la first lady Betty Ford diventò sua cliente, facendola tornare sulle prime pagine di tutti i giornali. Una vita piena di conquiste, insomma, come capitano solo giocando con le bambole. Paolo Mastrolilli