Gabriele Romagnoli Il Venerdì, 03/05/2002, 3 maggio 2002
Best, l’ala che finì per dribblare se stessa, Il Venerdì, 3 maggio 2002 Gli hanno assegnato un pallone d’oro e qualche mese di galera
Best, l’ala che finì per dribblare se stessa, Il Venerdì, 3 maggio 2002 Gli hanno assegnato un pallone d’oro e qualche mese di galera. Ha tirato 178 calci da gol e una manciata di fango a un arbitro internazionale. Ha conquistato la Coppa dei Campioni a 22 anni e (la fonte è lui stesso) duemila bionde negli anni Settanta. Ha segnato sei reti nella stessa partita e fatto l’amore con sei donne nella stessa notte, in ospedale (la fonte è sempre la stessa, le donne sempre bionde). esploso nel Manchester United e scoppiato in una squadra del calcio americana chiamata i ”Terremoti di San José”. andato avanti per anni a birra e noccioline e si è mangiato il futuro. Dice di avere avuto quattro vite e di averle sprecate tutte. Aveva un nome insostenibile: Best, il migliore. Insostenibile era il suo talento: quando puoi partire palla al piede dalla tua metà campo e andare in porta da solo (fino a sei volte in novanta minuti) chi altro puoi dribblare se non te stesso? George Best ci è riuscito perfettamente, sbilanciandosi con la finta promessa di una carriera infinita, lasciandosi alle spalle e a terra, ubriacato e sfinito. A vent’anni era una popstar da stadio, a 56 è un signore barbuto che commenta le partite a Sky Tv come un Serena qualsiasi, entra ed esce dalle cliniche per alcolizzati cronici e ogni volta, con il fegato in mano, promette alla moglie Mex, che ha trent’anni in meno e dei capelli non ne parliamo neppure: «Stavolta è quella buona. E facciamo anche un figlio». Pare che, in privato, lei lo picchi come un terzino. La popstar se n’è andata per sempre, come gli Anni Sessanta, i Beatles e le ali. Il signore barbuto sta per riapparire, dal vivo e in un film biografico (Best) che, come tutte le pellicole sul calcio fin qui prodotte, patisce la marcatura dell’originale e si infligge l’autogol della retorica. La circostanza offre l’occasione per ripercorrere il suo esemplare tracciato umano e sportivo, ma soprattutto interrogarsi su due fenomeni solo apparentemente calcistici: la dissipazione del talento e la scomparsa delle ali. Il Bignami di tutte le vite, alla voce George Best recita: nato nella Belfast del secondo dopoguerra, ebbe fame di cibo razionato e di calci al pallone. Iscritto a una scuola dove si praticava il cricket, prontamente la cambiò. Scorto da un osservatore a 15 anni, fu segnalato al Manchester United con un telegramma diventato letteratura: «Credo d’avervi scovato un genio». Spedito all’Old Trafford, tornò a casa dopo giorni uno, afflitto dalla stessa saudade di un’ala carioca. Visitato a domicilio dal manager Matt Busby, si lasciò convincere a tornare e fece del vecchio il suo padre elettivo, come tendono a fare i ribelli in cerca di un’autorità che li salvi da se stessi. Debuttò ad anni 17. Segnò, ad anni 20, due gol a Lisbona, nel tempio di Eusebio, nei primi minuti 10, chiudendo un quarto di finale che sembrava invalicabile. Vinse, anni due dopo, la Coppa dei Campioni e il Pallone d’oro. Portò lunghi capelli e maglie fuor dei calzoncini, quando nessun altro lo faceva, men che meno il baronettistico, educato e calvo compagno Bobby Charlton. Brindò ai trionfi e non smise più. Ebbe un allenatore-patrigno (ne sottolineo il nome, Tommy Docherty) preoccupato, come tutti i meschini, di dimostrare la propria esistenza cancellando quel che di buono aveva trovato, e fu fatto fuori. Sì ritirò, tornò. Bugia: non tornò mai. Fece il pagliaccio in giro per campi minori. Se ne andò definitivamente nell’83. Fu arrestato per ubriachezza e aggressione a pubblico ufficiale nell’84. Fece bancarotta nell’86. Nell’87, in un hotel casino dalle parti di Marbella un fattorino d’albergo che l’aveva molto ammirato aprì la porta della sua camera e chiese: «Señor Best, dove ha sbagliato?». Lui era a letto con due bionde e una magnum di champagne. Allargò le braccia e rispose: «You tell me» («dimmelo tu»). Riposa senza pace nell’etere di Sky News. E noi, che pure abbiamo nostalgia solo del futuro, qui a chiederci perché c’è toccata in sorte l’epoca di Beckham e delle Spice Girs, anziché quella di Best e dei Beatles. Perché le cose sono collegate. Ma con un filo. I calciatori sono espressione del loro tempo. Oppure no. Ci sono uomini non in sincronia con il mondo e il momento a cui appartengono, abitanti di una propria isola, una città del sole di cui hanno personalmente scritto le tavole della legge per poterle rompere a calci in qualunque momento. Giocano all’ala, come Best. Sono riconoscibili a prima vista. , anche, una questione fisiognomica. Prendete Gigi Meroni: faccia irregolare, capello lungo, calzettone abbassato, maglia fuori e, in borghese, abiti improbabili disegnati da lui stesso credendo che Carnaby Street fosse una laterale di via Madama Cristina. Un preciso idolo di riferimento: George Best. Stessi capelli, più o meno, e stessa mitologia per Sala e Causio, Conti e Filippi (in lui quasi metà dell’altezza complessiva). Per tutti, un aspetto illogico per un calciatore. Potevano sembrare pittori di strada (Sala), batteristi dei Camaleonti (Causio), meccanici straordinari tipo «quel gran genio del mio amico» (Bruno Conti), trafficanti di autoradio usate (Filippi), impiegati della pubblica amministrazione (Fanna), istruttori di scuola guida (Lombardo), piloti di rally (Marocchino), tutto ma non calciatori. Per questo, appunto: ali. Il loro sbilanciamento sociologico si trasformava nello squilibrio della finta che solo loro erano in grado di controllare. Il loro istinto per la trasgressione diveniva voglia di dribbling fine a se stesso. Erano lo specchio di un’epoca di mutamenti e movimenti, dove la politica non s’accalcava a centrocampo in cerca del passo dei moderati, con l’encomiabile risultato di addormentare il gioco e risvegliare insulsi pedatori senza classe sulla fascia destra. Era un tempo in cui i diversi c’erano, li vedevi, ballavano e cantavano, ma non a comando. Oggi, chi lancerebbe una moda da solo? stato distribuito un analgesico generazionale, due decenni di appiattimento hanno prodotto mediani, difensori centrali, centravanti di rapina, ma neanche, per quant’è grande l’Europa, un’ala vera, che sappia comunicare al pubblico una «sensazione di leggera follia». Non dico Best, ma una buona, almeno. Le ali appartengono a un’altra stagione, romantica e dissoluta. Quando smettono, smettono. Pochi allenano e se lo fanno (vedi Bruno Pace, il Best alla bolognese) è con risultati disastrosi. Non sono adatti a dirigere il traffico e impartire ordini, ci vuole un libero come Lippi, un mediano come Trapattoni, al massimo una mezz’ala come Capello. Un’ala, mai. Quella va sul fondo, del campo e della vita. Può schiantarsi contro un’auto o contro la propria incapacità di convergere al centro, accettare un patrigno ignobile aspettando che passi, giocare ogni partita come se fosse la prima, esultare per un altro gol dopo averne fatti sei, eccitarsi per la settima bionda, credere che il gioco valga qualcosa e non lasciarsi abbagliare dalla sensazione che sia tutta una boiata senza confine: tu che corri, le gente che dà di matto, quelli che scrivono cose già scritte, quelli che ci mettono e ci fanno i miliardi, l’arbitro infangato, le scarpette dorate, tutto. Tocca a ogni talento, quel momento lì, è come un raggio verde: se vai oltre tramonti serenamente, con due figli, una polizza vita e una panchina sotto le chiappe, in uno stadio o in un parco. Se sei un’ala vera ti colpisce negli occhi e sbandi, finendo fuori dal campo. proprio così sbagliato, señor? You tell me. Gabriele Romagnoli