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 2002  maggio 01 Mercoledì calendario

La prigionia di Suu Kyi, figlia di un eroe birmano, La Stampa, mercoledì 1 maggio 2002 Sono loro. Come la Megawati Sukarnoputri, oggi capo di stato in Indonesia, o Gloria Magapal-Arroyo, ora presidente delle Filippine, o Benazir Bhutto, ex leader del Pakistan, o Indira Gandhi ex primo ministro in India, anche Aung San Suu Kyi ha ereditato lo scettro e il destino dal padre

La prigionia di Suu Kyi, figlia di un eroe birmano, La Stampa, mercoledì 1 maggio 2002 Sono loro. Come la Megawati Sukarnoputri, oggi capo di stato in Indonesia, o Gloria Magapal-Arroyo, ora presidente delle Filippine, o Benazir Bhutto, ex leader del Pakistan, o Indira Gandhi ex primo ministro in India, anche Aung San Suu Kyi ha ereditato lo scettro e il destino dal padre. Queste donne, guide carismatiche di tanta parte di Asia, hanno tutte avuto il genitore, capo di stato, eliminato in circostanze più o meno torbide. Tutte hanno sofferto forme di persecuzione mentre una parte del Paese le adorava per il loro carattere e per il ricordo del genitore, e un’altra parte le avrebbe messe al rogo per gli stessi motivi. Ma forse tra tutte il destino più amaro è toccato a lei, Suu Kyi, birmana, figlia del generale Aung San, eroe nazionale, assassinato nel 1947, quando lei aveva appena due anni. È finita agli arresti domiciliari quando da poco era tornata in patria, 14 anni fa, dopo un’assenza di 28 anni. Da allora non ha mai più lasciato il Paese, e raramente ha lasciato la casa dove è rimasta detenuta lontano dai figli e soprattutto dal marito che nel frattempo è morto di cancro senza poterla rivedere. Forse la sua storia è tutta qui, in questo doppio dramma familiare, la perdita del padre e del consorte, che hanno coinvolto, come avevano capito i greci sin dall’Iliade, anche il dramma di una nazione. Così come Troia si perse per una passione di Paride per Elena, così forse tanti nodi degli ultimi 14 anni di storia della Birmania e dell’Asia si possono dipanare a cominciare dalla fedeltà di Suu Kyi verso il marito Michael Aris, professore di orientalistica inglese. Così mentre oggi il mondo trattiene il respiro attendendo la sua imminente liberazione, che dovrebbe rilanciare il processo di democratizzazione in Birmania, come nelle tragedie greche, tutto questo avviene per l’ultima definitiva sconfitta dell’arcinemico suo e della sua famiglia, il generale Ne Win. Ad entrambi i birmani hanno dato un nome speciale, la signora e il vecchio. Ne Win, oggi ultra novantenne, aveva retto il Paese dal dopoguerra fino al 1988, ma anche dopo ha continuato a tirare le fila del potere. E questo fino a qualche settimana fa. A marzo alcuni generali e parenti di Ne Win tentano un colpo di stato che viene sventato segnando probabilmente la definitiva uscita di scena del vecchio despota. Dalla primavera scorsa si cominciano a tessere contatti discreti, ma molto importanti, tra Birmania da una parte e Usa e Thailandia dall’altra per trovare un compromesso che salvi la faccia alla giunta militare al potere. E soprattutto ristabilisca la democrazia nel Paese. Gli americani avevano stilato a suo tempo una lista di circa duemila prigionieri politici da liberare. Nell’estate dell’anno scorso sono usciti di galera i primi venti e poi altre decine. Molto discretamente. Ma il prezzo vero dello scambio era la liberazione di Suu Kyi. Contro questa ipotesi gli uomini di Ne Win provano ad organizzare un colpo di stato, solo che oggi diversamente dal 1989 quando i militari rovesciarono i risultati delle libere elezioni che avevano portato Suu Kyi al potere, molto è cambiato in Birmania. Ed è certamente cambiata anche lei. Quando ritorna a Rangoon nel marzo del 1988, per assistere la madre morente, Suu Kyi ha 43 anni, una vita passata a seguire i figli Alexander e Kim. Nei mesi successivi la politica in Birmania subisce una repentina accelerazione portando a luglio alle dimissioni di Ne Win e alle prime proteste studentesche. Le settimane successive sono un crescendo di bagni di folla e di sangue fino alla costituzione a settembre della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di cui lei diventa il segretario generale, e la bandiera. A dicembre, quando muore la madre, il funerale è una processione e una protesta che cresce rapidamente. A luglio la giunta mette Suu Kyi agli arresti domiciliari e organizza le elezioni a cui l’NLD potrà partecipare, ma ovviamente senza Suu Kyi. I generali pensano così che le elezioni non potranno che legittimare il potere della giunta. Invece a maggio del 1990 l’NLD conquista l’82 per cento dei suffragi e chiede senza mezzi termini ai militari di farsi da parte e cedere tutto il potere. I generali si sentono messi con le spalle al muro, la Suu Kyi si sente sicura, ma si sbaglia. Nel frattempo è anche cambiato il contesto internazionale. Ne Win, con il suo socialismo buddista era stato per decenni un bastione filo americano mentre la Cina appoggiava la guerriglia filo comunista del nord. Con la normalizzazione dei rapporti tra Cina e Usa la guerriglia del nord è stata abbandonata a se stessa, per finanziare la sua lotta aumenta anche la coltivazione dell’oppio e la produzione di eroina. I generali si sentono isolati più che mai, così non riconoscono il risultato delle elezioni, imprigionano altri leader dell’NLD e Suu Kyi continua la sua detenzione. Nel 1991 conquista il Nobel per la pace. In risposta alle crescenti pressioni internazionali, la giunta dice di essere disponibilissima a favorire il ricongiungimento di Suu Kyi con il marito e i figli, purché lei lasci il Paese. Il dramma di Suu Kyi si fa serio. Tra la scelta di rivedere i figli e quella di dedicarsi alla patria sceglie quest’ultima. Come fece il padre. «Mi sono sempre sentita vicina a mio padre, non ho mai dimenticato che lui avrebbe voluto che io facessi qualcosa per il nostro Paese», diceva nel 1995 agli americani. Ai messaggeri, che dalla Thailandia e dai Paesi dell’Asean, si recavano a Rangoon per chiedere passi avanti, i generali allargavano le braccia puntando il dito alla cocciutaggine della donna. Ai navigati diplomatici asiatici, che solo pochi anni prima avevano trattato anche con gli orripilanti e sanguinari khmer rossi, le condizioni poste dalla Suu Kyi parevano irrealistiche, degne di un’eroina da film e non del futuro capo di stato in uno dei crocevia geopolitici più delicati del mondo. I pochi intervistatori che l’hanno incontrata in questi lunghi anni di detenzione raccontano la sua grazia, il suo elegante lungyi, abito tradizionale birmano, la sua villa a due piani con un giardino pieno di gigli, gelsomini profumatissimi, le sue collane di fiori. Lei raccontava che rifiutava tutto quello che le offrivano i suoi carcerieri militari, fino al punto di non avere abbastanza da mangiare e di temere di morire di fame. Nel 1994 viene rilasciata dopo alcuni colloqui con Khin Niunt, l’uomo nuovo tra i generali. Ma nonostante il rilascio, negli anni che seguono, ci sono pochi passi avanti nella situazione politica del Paese. Lei guida l’NLD nel ritiro della convenzione nazionale, la giunta minaccia di «annichilire» chiunque disturbi l’ordine pubblico. Da allora in poi le sue attività sono sempre più controllate, sempre più sotto pressione e nel 1999 il marito si spegne di cancro a Londra, da solo con i figli. Lei è una leggenda, il prigioniero politico più famoso del mondo. Per lei il presidente americano Clinton redarguisce la Birmania, ma questo non impedisce alla giunta di riarrestarla nel 2000. Anche il Paese, a fatica, intanto comincia a cambiare. I militari hanno raggiunto un armistizio con le milizie delle minoranze del nord, i wa, ex filocomunisti. Nel famigerato Triangolo d’oro, a nord del Paese, ci sono pace e affari tra le varie etnie. La stessa Birmania e la sua capitale hanno cambiato nome, e si chiamano ora Myammar e Yangoon. La Suu Kyi non è d’accordo neppure su questo. Difficile che oggi la sua liberazione porti alla resa senza condizioni dei militari. Oggi lei è cambiata? Sono cambiati gli uomini che la consigliano? Quanto l’ombra del vecchio Ne Win le ricorda ancora il fantasma del padre, e oggi anche quello del marito? In quei due fantasmi imprigionati dietro il viso duro e soave di una signora ormai di 57 anni è riposto il destino della Birmania, ai confini tra un miliardo di indiani, un miliardo di cinesi e mezzo miliardo di sudest asiatici. Francesco Sisci