Paolo Migliavacca Il Sole-24 Ore, 29/04/2002, 29 aprile 2002
C’è chi è disposto a vivere e morire per una pietraia, Il Sole-24 Ore, lunedì 29 aprile 2002 Si può giungere alla soglia di un conflitto armato - o addirittura combatterlo - per controllare un fazzoletto di terra, spesso privo di valore economico? O per mettere le mani su degli scogli persi in un Oceano? Molti casi anche recenti fanno pendere la bilancia per il sì
C’è chi è disposto a vivere e morire per una pietraia, Il Sole-24 Ore, lunedì 29 aprile 2002
Si può giungere alla soglia di un conflitto armato - o addirittura combatterlo - per controllare un fazzoletto di terra, spesso privo di valore economico? O per mettere le mani su degli scogli persi in un Oceano? Molti casi anche recenti fanno pendere la bilancia per il sì. Anche in un’epoca in cui il possesso materiale di un bene sembra aver ormai perso importanza a favore del controllo del suo know how o del brevetto, invece che delle materie prime necessarie a fabbricarlo. E in cui le questioni di principio o di puro prestigio nei rapporti tra Stati hanno perduto l’importanza che avevano ancora pochi decenni fa.
In dicembre, per esempio, il Nicaragua ha risollevato presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aja la questione della sovranità sull’arcipelago di San Andres e Providencia, pochi isolotti senza valore nel mar dei Caraibi da un secolo controllati dalla Colombia. Mentre ancora la scorsa settimana l’Australia, che pure è stata la promotrice ed è la garante dell’indipendenza di Timor Est, ha rifiutato di firmare un trattato che delimiti definitivamente le acque territoriali con il piccolo neo-Stato, perché la piattaforma continentale comune nasconde ricchi giacimenti d’idrocarburi.
Casi come questi si contano tuttora a decine. E hanno una pericolosità a volte così elevata da trasformarsi in guerre guerreggiate, al prezzo di perdite umane e danni economici ingenti, certo ben superiori alla reale posta in gioco. Oppure da richiedere comunque sforzi economico-militari deleteri per economie troppo spesso incapaci di sostenerne il costo.
Solo una quindicina di giorni fa la Corte dell’Aja ha risolto il contenzioso territoriale che ha portato Etiopia ed Eritrea a combattere nel 1998-2000 un conflitto costato 40mila morti, mezzo milione di profughi e un miliardo di dollari per il controllo di poche decine di chilometri quadrati di pietraie. Ma anche il ricordo della guerra delle Falkland-Malvinas - costata un migliaio di vittime per ridare alla Gran Bretagna neppure 3mila abitanti, quattromila bovini e 700mila pecore (ma, forse, ingenti risorse petrolifere) - e la realtà ben più attuale del conflitto in Kashmir tra India e Pakistan - che finora ha mietuto circa 40mila vittime - sono moniti severi a quanti mirano a ”liberare” terre occupate, a difendere ”sacri confini” o più semplicemente a cercare diversivi territoriali a difficoltà politiche interne. Qual è, dunque, la mappa di queste vere mine vaganti della politica mondiale?
Europa. Ancora aperta la ferita del Kosovo e malamente rimarginate le altre dell’ex Jugoslavia (Bosnia e Krajne su tutte), ha un forte potenziale esplosivo in Moldovia la secessione di fatto della Transnistria russofona. Un po’ più a est la Russia cerca di mantenere il controllo del vulcano Caucaso, sempre pronto a esplodere, con la Cecenia in fiamme da un decennio, Abkhazia, Ossezia e Dagestan in fermento più o meno latente, mentre il conflitto tra Armenia e Azerbaigian (oltre 20mila morti) è congelato da un decennio.
Non va poi dimenticata l’irrisolta questione di Gibilterra tra Spagna e Gran Bretagna, delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco e di quell’entità artificiale che è il territorio ancora russo di Kaliningrad, incuneato tra Polonia e Lituania. E anche se nessuno crede a questo pericolo proprio alla vigilia dell’ingresso nella Ue di vari Paesi dell’Europa centro-orientale, c’è il bagaglio irrisolto di revanche che serpeggia tra i profughi tedeschi dai Sudeti e quelli ungheresi da Transilvania e Slovacchia.
Asia. Il rapido sviluppo economico di gran parte del continente sembra aver alquanto sopito molti dei potenziali conflitti territoriali. Periodicamente, però, si riparla di tensioni tra Cina e Vietnam per le isole Paracelso (occupate da Pechino manu militari negli anni ’70) e le Spratly, nel mar Cinese meridionale, rivendicate (e parzialmente occupate) anche da Malaysia, Taiwan e Filippine, che sperano racchiudano tesori d’idrocarburi. La Cina (che mostra di non aver abbandonato le antiche velleità di egemonismo regionale) rivendica anche l’arcipelago nipponico delle Seinkaku, oltre che il ritorno alla madrepatria di Taiwan e dei piccoli arcipelaghi che questa controlla, e ha ancora da sistemare formalmente varie pendenze con l’India (cui sottrasse nel 1958-60 una parte cospicua dell’Assam a oriente e il Ladak a occidente del lungo confine comune). India e Bangladesh si scambiano inoltre frequenti cannonate lungo la loro lunga e mal definita frontiera comune, mentre Tokio chiede sempre a Mosca la restituzione delle isole Kurili.
Oltre al già citato conflitto indo-pakistano per il Kashmir, restano irrisolti (ma per ora silenti) i contenziosi tra Iran e Pakistan per il Belucistan, tra l’Arabia Saudita e quasi tutti i suoi vicini (Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen e Kuwait) per la fissazione precisa dei confini in una regione che rigurgita di petrolio, e tra Iran da un lato e Oman ed Emirati dall’altro per la sovranità sulle strategiche isolette di Abu Musa e Tunbs, che chiudono lo stretto di Hormuz.
Cruciale il capitolo Irak: Baghdad rivendica l’intero Kuwait (la cui occupazione nell’agosto ’90 portò alla Guerra del Golfo) e parte dei confini sauditi. A invelenire ancor più i già ”caldi” rapporti tra Israele e mondo arabo c’è la sorte delle alture siriane del Golan, occupate nel 1967 e annesse nell’81, oltre al futuro delle colonie ebraiche a Gaza e Cisgiordania.
Africa. Negli ultimi anni ha tenuto banco il già citato conflitto Eritrea-Etiopia, ma non meno importanti sono altri contenziosi territoriali. Nella ”striscia di Caprivi”, terra namibiana lunga 400 chilometri e larga appena 30 che s’incunea tra Botswana, Angola e Zambia, operano 2.500 ”guerriglieri” che intendono riunirsi ai popoli affini dello Zambia.
Sempre aperto il contenzioso tra Marocco, che occupa tutto il territorio, e gli indipendentisti del Polisario per il controllo del Sahara occidentale, ex colonia spagnola ricca di fosfati. Latenti i conflitti tra Etiopia e Somalia lungo un confine mai definito dell’Ogaden e tra Nigeria, Camerun e Guinea Equatoriale per delimitare le acque del Golfo di Guinea, colme di petrolio.
America latina. Nel continente in cui l’onore di un Paese e del suo esercito sono ancora cruciali, è chiaro che i contenziosi territoriali restano tanti e radicati. Dopo la guerra delle Falkland/Malvinas, nel 1995-98 Ecuador e Perù hanno combattuto un altro episodio (in questo caso per la Cordigliera del Condor, pochi chilometri quadrati sperduti nella selva) di un conflitto che dura dal 1942 per il controllo della regione amazzonica. Ma ora una riconciliazione sembra essere stata raggiunta.
Il Nicaragua, oltre al già ricordato ”litigio” con la Colombia, ne ha in piedi un altro con il Costa Rica per il confine sul Rio San Juan, mentre El Salvador e Honduras si contendono il Golfo di Fonseca, sul Pacifico.
Il focolaio più pericoloso appare, però, quello tra Guyana, Venezuela (che rivendica oltre metà del Paese confinante: il presidente Hugo Chavez, acceso nazionalista, ha dichiarato che non cederà «neppure un centimetro» di quanto preteso) e Suriname, che due anni fa ha cacciato una piattaforma per esplorazioni petrolifere che agiva nelle acque costiere contese per conto del ”nemico”. Ancora il Venezuela, per delimitare le acque del Golfo omonimo, ricche di petrolio, è nel mirino della Colombia.
Autentico relitto storico di guerre combattute alla fine del XIX secolo le pendenze tra Cile, Perù e Bolivia. Mentre i primi due hanno risolto nel 1999 gli strascichi della guerra del 1879-83 che vide il primo conquistare l’allora porto peruviano di Arica, la Bolivia continua a chiedere uno sbocco sul mare proprio presso la città cilena. Poichè ormai s’impongono i mercati comuni regionali, anticamera di vere e proprie unioni sovrannazionali, i due Paesi (entrambi associati al Mercosur) potrebbero risolvere il problema con facilitazioni e una zona franca proprio ad Arica. Intanto la questione resta aperta.
Paolo Migliavacca