Renato Ferraro CorrierEconomia, 29/04/2002, 29 aprile 2002
A Shangai si sentono tutti un po’ newyorkesi, CorrierEconomia, lunedì 29 aprile 2002 Visto dall’ottantottesimo piano della Jin Mao Tower, la Torre della prosperità dorata, il paesaggio verticale dei grattacieli scintillanti grida l’ambizione di Shanghai a trasformarsi nella Manhattan d’Oriente, una metropoli più internazionale di Tokyo, più ricca e aggressiva di Hong Kong
A Shangai si sentono tutti un po’ newyorkesi, CorrierEconomia, lunedì 29 aprile 2002 Visto dall’ottantottesimo piano della Jin Mao Tower, la Torre della prosperità dorata, il paesaggio verticale dei grattacieli scintillanti grida l’ambizione di Shanghai a trasformarsi nella Manhattan d’Oriente, una metropoli più internazionale di Tokyo, più ricca e aggressiva di Hong Kong. Dall’alto si percepisce l’esplosione di vitalità, entusiasmo, furia di vivere, intraprendere, divertirsi. «Shanghai ha il diavolo in corpo», afferma la scrittrice Mian Mian, cronista di avventure, dissipazioni e sogni che ricordano i folli anni Trenta, quando questa era la nuova frontiera del capitalismo internazionale, con la più alta concentrazione di imprenditori, bucanieri, gangster e disperati. Un decennio di crescita economica al ritmo medio del dieci per cento ha portato via la tristezza che la città ispirava con i suoi decrepiti quartieri coloniali e le testimonianze appassite del periodo in cui era stata la dinamo dell’Asia, prima di divenire sotto il comunismo buia, logora, depressa. Ma non ha cancellato la nostalgia di quell’epoca, e alla rincorsa della propria leggenda Shanghai vuole ricrearsi un’immagine favolosa, basata sul mito moderno della globalizzazione: sarà un centro nevralgico di traffici, comunicazioni e flussi finanziari non solo per la Cina ma per l’Asia intera, e su una dimensione che ingloberà il delta dello Yangtze, i centri di Hangzhou, Suzhou, Nanchino, creando una megalopoli da cinquanta milioni di abitanti. Il traguardo non è molto lontano, a giudicare dal ritmo frenetico con cui sono cresciuti migliaia di torri e grattacieli, e la città s’è estesa al di là del fiume Huangpu, su cinquecento chilometri quadrati dove negli anni Ottanta c’erano paludi. Superstrade urbane si sovrappongono a quattro, cinque livelli sopra i tetti delle vecchie concessioni coloniali, mentre le talpe scavano linee della metropolitana e un secondo e terzo tunnel sotto lo Huangpu, che verrà attraversato anche da un terzo ponte, in aggiunta ai due di recente costruzione. Un sofisticato aeroporto internazionale è stato aperto a est per servire la Shanghai nuova, Pudong, e fra due anni un treno a levitazione magnetica, il più rapido del mondo, percorrerà i trentatré chilometri in otto minuti. Il progetto viene realizzato dalla Thyssen-Krupp, che conta di collegare in seguito con linee magnetiche Shanghai a Nanchino e quindi a Pechino. Per accogliere la marea d’immigrazione sorgono nove città satelliti, ciascuna secondo un diverso modello architettonico straniero: quella ”italiana” disegnata dallo studio Gregotti. E intorno a un’isola nella baia di Hangzhou nasce un porto in acque profonde capace di ricevere una cinquantina di navi. Sarà unito da un viadotto di trenta chilometri alla terraferma, dove viene edificata un’altra città per 300 mila abitanti. Opere ciclopiche che impiegano masse di ex contadini, da convertire poi in operai per le fabbriche, le installazioni portuarie, i servizi. Shanghai si è data i più bei musei dell’Asia, la più alta torre di telecomunicazioni, il più grande teatro dell’opera, il più grande acquario, la più moderna biblioteca, la Borsa più high-tech, e ha in progetto il grattacielo più alto del mondo. Shanghai ha la passione dei record, non vuole essere seconda a nessuno. pure il luogo più divertente, affermano i quarantamila stranieri che vi abitano, e con speciale entusiasmo gli scapoli. Perché i ricchi shanghaiani, in fatto di svaghi, raffinatezze culinarie, lussi e piaceri, impongono i massimi standard. «Qui il termine di confronto è uno solo: New York», dice il manager svizzero dell’ultimo ristorante di moda, il ”Che Guevara”, nel quartiere notturno di Xintiandi, creato in stile anni Trenta da un gruppo immobiliare hongkonghese. La concorrenza è feroce, con una clientela così esigente e volubile, e i locali aprono e chiudono a ritmo frenetico. Tre anni sul mercato sono un record detenuto da pochi: ”M on the Bund” dell’australiana Michèle Garnaut, dove cenano i potenti, il ”Cotton Club”, la discoteca ”Tropicana” aperta da un ex diplomatico polacco. Qui ci sono saune con pareti di giadeite, pietra che i cinesi ritengono salutare, e vasche dove ci si rilassa nel latte, sontuosi saloni di massaggi, club in cui si praticano le arti erotiche della tradizione taoista. In fatto di sesso gli shanghaiani sono spigliati. Fra le ragazze e le giovani signore s’è diffusa la voga di farsi ritrarre nude, o appena velate, da fotografi professionisti. Una città senza limiti? No. I limiti li noti appena entri in una libreria: solo volumi cinesi o stranieri approvati dal partito. «Certamente occorre maggiore libertà culturale se Shanghai vuole misurarsi con New York - riconosce Zhao Changtian, direttore della rivista ”Mengya” - Abbiamo grandi università scientifiche ed economiche, ma le discipline umanistiche languono, ed è uno sbaglio perché il maggiore pericolo è il vuoto di cultura e di valori. Il modello consumistico introdotto dal governo per spingere la gente a darsi da fare è un miraggio: se il miliardo e 300 milioni di cinesi consumasse quanto voi dell’Ovest non basterebbero le risorse del pianeta. Il risultato è la confusione morale, il cinismo, l’insensibilità nei confronti di quanti sono travolti nella corsa al benessere. Non c’è pietà per chi cade, non c’è compassione per i quasi sei milioni di sottoproletari venuti dalle campagne, legalmente o illegalmente, a costruire Shanghai». Zhao indica la Cina che si stende all’orizzonte, al di là dei grattacieli: «Non occorre andare lontano per vedere la povertà, e poi la miseria, e poi condizioni di vita terribili e la fame. Shanghai è una vetrina, è il nostro vestito buono, è il banchetto offerto agli ospiti. Noi cinesi siamo sensibili alla faccia, ci piace fare bella figura». Shanghai un miraggio? Di sicuro per il turista texano che c’invita entusiasta ad ammirare intorno a noi «un miracolo del capitalismo e della libera impresa». La nuova Shanghai è invece proprio la perla della pianificazione, poiché il suo ritorno allo splendore non è stato spontaneo ma deciso dal partito. Un ordine di Deng Xiaoping, nel 1992, aveva dato il via a mostruosi investimenti nelle infrastrutture, nell’edilizia, nelle industrie, e la scelta di privilegiare questa città è stata mantenuta dal presidente Jiang Zemin, ex segretario politico di Shanghai, dal premier Zhu Rongji, ex sindaco, e da tutta la ”banda shanghaiana” che ha il potere a Pechino. Occorreva un polo di sviluppo a est, simile a quello rappresentato da Hong Kong nel sud e dalla coppia Pechino-Tienjin nel nord-est, bisognava creare le condizioni sia per la nascita di industrie d’avanguardia, sia per attirare investimenti stranieri che non si limitassero alle fabbrichette messe su da hongkonghesi e taiwanesi negli anni Ottanta. «Il piano ha avuto successo - dichiara l’economista Huang Yongming - Fra le quasi 21 mila imprese straniere che hanno investito 53 miliardi di dollari trovate i nomi di tutte le multinazionali, e di grossi gruppi come, per l’Italia, Fiat, Pirelli, Merloni, Parmalat, Montedison, Zanussi, Salvarani, Sanremo (Inghirami). Grazie ai capitali e alle competenze stranieri ora focalizzeremo lo sviluppo su informatica, semiconduttori, nuovi materiali, biomedica, telecomunicazioni, servizi finanziari e commerciali». «Le più celebri corporations del mondo sono qui. Ci si sente su una nuova frontiera, ed è tanto eccitante quanto stressante, perché la lotta per la sopravvivenza è feroce - afferma Charles Schanen, manager della Siemens Mobile Communications, una delle cinquata società del gruppo tedesco in Cina -. Nel campo dei telefonini, ad esempio, competiamo non solo con industrie globali come Motorola e Nokia o big asiatici come Samsung, ma anche con imprese cinesi parecchio aggressive. Abbiamo trentasei concorrenti nel settore, e una clientela più difficile di quella occidentale. Credevamo che per affermarsi bastasse buona tecnologia e buon prezzo: uno sbaglio. Qui bisogna portare la tecnologia di punta e anche un migliore design, perché il prodotto che soddisfa gli europei non è abbastanza bello per i cinesi. il mercato più severo ma anche quello con ritmi di crescita furiosi in campi come le telecomunicazioni, e poi fra le economie mondiali questa è la sola che non dia segni di stanchezza». Conferma Giuseppe Cattaneo, manager di Antibioticos del gruppo Montedison, una delle success stories italiane in Cina: «Se non hai le carte migliori da giocare vieni fatto a fette, ma se le possiedi ottieni risultati entusiasmanti. Noi siamo partiti nel ’99, con un investimento di quattordici milioni di euro, e l’anno scorso abbiamo avuto un utile netto di sette milioni. Ora raddoppiamo investendo in una seconda fabbrica». Marco Mora, un fisico quarantaquattrenne di Bergamo, è vicepresidente della Semiconductor Manufacturing International, società creata da investitori americani e asiatici. «Solo a Shanghai - racconta - è possibile costruire e mettere in produzione in tredici mesi una fabbrica con mille e 700 addetti e che fra due anni sarà numero uno mondiale per capacità produttiva nei semiconduttori. La fabbrica è un gioiello, ed abbiamo costruito in tempi record pure i palazzi per i dipendenti, le ville dei manager, il centro sportivo, un club nel parco, una scuola internazionale per i bambini. Agli italiani dico: sprovincializzatevi, guardatevi intorno, la Cina e altri Paesi offrono opportunità che a casa nemmeno sognate». «I nostri giovani sono poco avventurosi - riconosce l’avvocato Claudio D’Agostino, che a Shanghai rappresenta lo studio legale Birindelli - I laureati della Bocconi che accogliamo in stage sono riluttanti a fermarsi, benché la vita qui sia confortevole. Un lavoro ”all’estero” lo immaginano solo a New York o a Londra». La debolezza di Shanghai è il settore privato, sostiene il professor Zhang Jun dell’università Fudan: «Invece di proseguire a spingere l’economia con investimenti pubblici, il governo deve lasciare la briglia sul collo agli imprenditori privati; deve indurre le banche a finanziarli, smettendo di gettare soldi in industrie statali decotte; deve autorizzare banche private; deve permettere che i manager privati si quotino e si finanzino in Borsa. Solo così il boom continuerà, e solo così crescerà una domanda interna capace di compensare cadute dell’export e degli investimenti stranieri in caso di recessioni in Occidente». Il professore, come il governo, è preoccupato dalle tendenze protezionistiche emerse in America. Le tariffe imposte da Washington sull’acciaio hanno causato spavento, e si sono aggiunte minacce sui semiconduttori e sui tessili. «Gli americani ci lanciano segnali inquietanti, appena dopo il nostro ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. Per noi la globalizzazione è stata una scelta strategica - sottolinea Zhang - O vi siamo giunti tardi, al culmine, prima di un reflusso?». Molti, cinesi e stranieri, cominciano a chiederselo. Mausoleo della globalizzazione affermatasi fra le due guerre mondiali, Shanghai con i suoi grattacieli scintillanti sarà il monumento all’euforia degli anni Novanta? Renato Ferraro