Mario Margiocco Il Sole- 24 Ore, 30/04/2002, 30 aprile 2002
Le Pen, l’ultimo populista all’americana, Il Sole- 24 Ore, martedì 30 aprile 2002 L’America non piace a Jean-Marie Le Pen, così come non gli piacciono l’Europa che soffoca la Francia, gli stranieri e l’euro, strumento massimo della sopraffazione europea
Le Pen, l’ultimo populista all’americana, Il Sole- 24 Ore, martedì 30 aprile 2002 L’America non piace a Jean-Marie Le Pen, così come non gli piacciono l’Europa che soffoca la Francia, gli stranieri e l’euro, strumento massimo della sopraffazione europea. Contro gli Stati Uniti ha lanciato, ancora nell’ultimo intervento al Parlamento europeo il 24 aprile, i suoi strali. E in nome della Francia propone ai francesi un mondo più semplice, ordinato, garantito. un’utopia nel passato, come più volte ha fatto la destra, lasciando alla sinistra il monopolio delle utopie nel futuro. Furono tuttavia gli Stati Uniti, più di un secolo fa, ad offrire in una società democratica a suffragio universale il primo esempio moderno e diffuso della rivolta contro un futuro dettato dalle élites della moneta, inevitabilmente cosmopolite e internazionaliste (e quindi para-giudaiche), rivolta di cui Le Pen è l’ultima incarnazione in Europa, e la più vistosa. E lo fecero con il movimento populista e il suo People’s Party, arrivato al suo culmine tra il 1890 e la fine del secolo. Era la paura del nuovo. Il mondo dei farmers fino ad allora espressione dell’identità nazionale stava cedendo il passo all’impetuosa avanzata dell’industria, delle grandi banche e della potenza finanziaria soprattutto di New York, e aveva paura. Se c’è un precedente calzante per Le Pen, su alcuni grandi temi che li accomuna, è proprio quello del Populismo americano nella sua fase più tipica di 110 anni fa, quando il termine ”populismo” entrò per la prima volta nel dizionario politico. Nazismo e fascismo sono probabilmente fenomeni troppo precisi, pur nella loro confusione ideologica, per fornire una chiave interpretativa a Le Pen, che li ricorda fastidiosamente nello stile come hanno fatto peraltro molti altri populisti, di varie epoche e latitudini. La chiave populista è probabilmente più adeguata. Si va dal profondo sospetto contro il governo accentrato della moneta all’antipatia per le masse di immigrati; dalla richiesta di garanzie sociali ed economiche per la ”piccola gente” alla difesa della cultura autoctona contro cambiamenti eccessivi; dall’anti cosmopolitismo al nativismo e a un filone costante, anche se non dominante, di antisemitismo; il tutto in un curioso mix di antistatalismo e parasocialismo presente sia nei Populisti che nel Fronte nazionale di Le Pen. La legge e l’ordine erano un problema minore per gli agrari del populismo americano mentre sono dominanti nella propaganda di Le Pen, ma anche allora i Populisti temevano le masse di manovra degli immigrati nei ghetti delle lontane città della costa atlantica. Il populismo è una corrente forte e perenne nella cultura politica americana, fondata sul concetto del common man e sospettosa come poche delle élites, che da lungo tempo si legittimano soltanto inchinandosi o fingendo di farlo alla superiorità morale dell’uomo qualunque. Ma solo alla fine dell’Ottocento, capitalizzando su alcune parole d’ordine lanciate mezzo secolo prima di Andrew Jackson (rivolta dell’Ovest contro le banche dell’Est), si formò un vero movimento. Che presentò un proprio candidato come terzo partito (il People’s Party) alle elezioni del 1891, si associò ai democratici nel ’96 nella speranza di convertirli all’unico collante universale del movimento, il bimetallismo e l’uso anche dell’argento come ancoraggio monetario e non solo dell’oro, deflazionista e base del potere monetario dell’Est. Oltre alla moneta d’argento, inflazionistica e quindi amata degli agricoltori indebitati e comunque nucleo della loro richiesta, i populisti americani di fine Ottocento chiedevano soprattutto garanzie statali e federali per i redditi agricoli, trasporti meno cari, e il ritorno alla emissione decentrata di moneta, mentre era già in atto il movimento che avrebbe portato nel 1914 alla nascita del Federal Reserve System. Il concetto stesso di banca centrale federale era detestato, strumento in mano delle élites, spauracchio di una visione nazionalista, anti-Europea e anti-inglese (allora la gran Bretagna era la potenza dominante), che identificava New York con il male e Londra, la City, con il male assoluto. Il bimetallismo fu poi superato degli eventi, tra cui la corsa all’oro del Klondike (1897-1899) che aumentò di fatto la base monetaria e consentì notevoli aumenti di prezzo delle derrate alimentari. Le Pen ha individuato nell’euro il simbolo dell’asservimento francese all’Europa e, poichè Bruxelles a suo dire è asservita agli Usa, dello strapotere americano. Non si sa bene che cosa voglia fare, così come restò sempre confuso il bimetallismo del People’s Party. Secondo una recentissima lista di priorità, la rinegoziazione dei trattati europei contro quelli che da tempo vengono chiamati gli ”Europfederasts” e i ”Maastricheurs” è al primo posto. Quando all’euro, Le Pen non ha mai precisato come intende procedere, parlando di abolizione ma anche di ritorno a un franco ancorato in parità irreversibile all’euro, quindi cambiando in realta’ assai poco. E chiedendo un ritorno alla piena generosità della Politica agricola comune, di cui la Francia è stata come noto di gran lunga la prima beneficiata. La storiografia americana si è dimostrata in genere gentile con il suo Populismo, identificato come l’origine del movimento progressista che portò tra l’altro alle leggi anti-trust e come erede della più pura tradizione agraria, cioè del nucleo dello spirito americano, e in ultima analisi come precursore del New Deal. Il capolavoro politico di un gruppo battagliero di cui Ronald Reagan era il simbolo fu, negli anni 70 e 80 del Novecento, l’aver sposato la retorica populista con lo spirito capitalistico in tutte le sue versioni, anche delle big corporations, e l’aver saldato (in parte) una frattura quasi secolare, spingendo tanti piccoli americani a votare per il partito dell’economia (i repubblicani) e non più, in alcune occasioni, per quello della socialità (i democratici). Negli anni Cinquanta però alcuni fra i migliori storici di quella generazione, da Oscar Handlin a Richard Hofstadter ad altri, avevano sfidato la tradizione dominante mettendo in luce l’anima oscura del populismo, intollerante e facile preda di teorie cospiratorie. Da allora, e fino agli ultimi lavori, è stato un susseguirsi di critiche e difese, pro o contro il giudizio di Hofstadter (1955) a cui avviso il Populismo fu un «bizzarro pseudo-conservatorismo» dettato dalla paura di un mondo che stava irrimediabilmente cambiando. Per arrivare alla definizione data da Michael Kazin (1955) di Populismo come «un insistente e peraltro mutevole stile di retorica politica con radici profondamente ancorate all’Ottocento». «La finanza internazionale sta distruggendo le nazioni, e i suoi profeti sono la Cnn, il Washington Post e gli Eurocrati di Bruxelles», dichiarava il primo maggio del ’98 un Le Pen in ascesa. Quanto agli ebrei, per un delegato agrario del New Jersey alla seconda National Silver Convention del 1892 occorreva misurare i politici sul metro della vicinanza a ”Wall Street e agli ebrei d’Europa”, mentre per un altro populista l’allora presidente Grover Cleveland era «l’agente dei banchieri ebrei e dell’oro britannico». Mario Margiocco