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 2002  maggio 01 Mercoledì calendario

Il vagabondo contro il comunista, La Stampa, mercoledì 1 maggio 2002 Feci la conoscenza di Italo Calvino una cinquantina di anni fa in un corridoio al primo piano di palazzo Campana, davanti a una bacheca gremita di avvisi

Il vagabondo contro il comunista, La Stampa, mercoledì 1 maggio 2002 Feci la conoscenza di Italo Calvino una cinquantina di anni fa in un corridoio al primo piano di palazzo Campana, davanti a una bacheca gremita di avvisi. Il palazzo, nero, tristissimo, era stato sede del fascio locale e adesso ospitava la facoltà di lettere dell’università di Torino. Ci presentò un comune amico che passava di lì e che se ne andò poco dopo. Calvino mi disse che stava preparando la tesi (su Conrad) e poi bruscamente, come per troncare sul nascere ogni chiacchierata letteraria, mi chiese se ero comunista. Gli dissi di no. Allora azionista? Nemmeno. A quel tempo i partiti politici uscivano dalla clandestinità e dal silenzio e si sforzavano di presentarsi e spiegarsi agli italiani coi modesti media di allora, di cui il comizio era, se non il più efficace, certo il più divertente. Andare un po’ in giro a sentire quegli ignoti oratori da una piazza all’altra, da un teatro a un cinema di periferia, non sembrava il peggior modo per passare un pomeriggio o una sera. Le formule, gli slogan, le frasi fatte, i luoghi comuni della politica non avevano ancora quel suono frusto che dovevano in seguito renderli intollerabili all’orecchio umano, tutto appariva meravigliosamente fresco, curioso, degno di attenzione. Cosa volevano i socialisti? Che raccontavano i liberali? Chi erano i qualunquisti? Dissi a Calvino che io andavo piuttosto a sentire i comizi degli anarchici, per aver letto durante lo sfollamento L’unico di Max Stirner, testo atto a promuovere l’egocentrismo di un giovane ex-balilla poco incline, dopo tante adunate e sfilate a nuovi intruppamenti. Calvino, che non doveva conoscerlo, lasciò cadere e se ne andò con un vago, forse condiscendente borbottio. Molte altre cose ci dividevano. Gli anni dal ’42 al ’45 io li avevo passati quasi interamente e quasi tranquillamente in campagna, mere ragioni anagrafiche avendomi risparmiato il servizio militare prima, e dopo il richiamo tra le file del fascismo repubblicano, vale a dire l’obbligo di una scelta di campo nella guerra oggi detta civile. Calvino era stato partigiano, aveva combattuto sui monti della Liguria, nulla di più naturale che ora ci tenesse a conservare quel caldo cameratismo tra i ”compagni” rossi. Non parlammo mai della sua adesione al Pci, né posso dire se davvero in quel periodo si augurasse una rivoluzione e una società di tipo sovietico. Quanto a me, alti concetti come democrazia, libertà, maggioranza, opposizione, eccetera, increspavano appena la mia torpida coscienza di autodidatta politico, ma così a fior di pelle mi pareva vorrei dire inappropriato voler passare da una dittatura a un’altra dittatura, fosse pure stavolta del proletariato. Questo Proletariato era un chiodo fisso degli intellettuali dell’epoca, lettori e chiosatori instancabili di Gramsci, Lenin, Stalin e altri insigni maestri. Come classe aveva molto di mitico, di tantalizzante, un po’ come le ballerine delle Zigfield Follies, così vicine sullo schermo sgranato di una terza visione, così lontane nella realtà. Era una classe che deteneva in ogni circostanza e per ogni occasione una sua profonda, istintiva verità, anzi la verità tout court; bastava saperla interpretare e tradurre in una ”linea”, e a tal compito tra euclideo e non-euclideo provvedeva appunto il partito comunista, sudando le sue quattro camicie dal più informale capannello di strada o fabbrica ai rituali dibattiti di ”sezione”, su su fino alla direzione romana, al comitato centrale, pronto 24 ore su 24 a captare con l’orecchio a terra i segnali affluenti dalle ”masse”. Una bella macchina, da molti invidiata e imitata, entro la quale il compagno Calvino doveva trovarsi a suo agio, posso immaginare. Scriveva su ”L’Unità” e su varie riviste del partito, partecipava a convegni, assemblee, cortei, incontrava dirigenti e luminari, non si tirava mai indietro. Era un intellettuale organico? Uno stalinista? Non ne ho idea, non so con quale spirito abbia vissuto la sua esperienza di militante dal disastro del Fronte nel 1948 alla morte di Stalin nel 1953. Non lo so perché ci eravamo persi di vista, io mi ero gettato proprio in quegli anni in una serie di individualistiche avventure lavorative a Parigi, in Belgio, a Londra, dove avevo avuto a che fare da vicino con gli alberi, mai con la foresta proletaria. Il succo di quelle mie astigmatiche esperienze era che esistevano proletari allegri e spiritosi, altri avarissimi, altri attaccabottoni, altri generosi, altri cupi e depressi; insomma lo stesso identico ventaglio di diversità riscontrabile in qualsiasi Circolo della Caccia o Jockey Club. Non vedevo nessuna differenza (a parte i soldi, talvolta le maniere) tra una marchesa logorroica e un logorroico manovale. Così, senza farci caso, attraverso il singolare assoluto di Stirner ero arrivato alla massima pluralità democratica. Nessuno era più importante o più trascurabile di nessun altro. Ripresi i rapporti con Calvino grazie alla casa editrice Einaudi, che finì per assorbire me e le mie velleità di libero vagabondo. Dopo aver errato per diversi uffici distaccati e scrivanie provvisorie fui infine sistemato nella sua stessa stanza, abbastanza ampia, bianca, algida. Calvino era piazzato spalle al muro, alla mia destra, faccia alla finestra; mentre il mio tavolo, ad angolo retto rispetto al suo, prendeva da quelle finestre una buona luce da sinistra anche d’inverno. Mi piaceva guardare la neve che veniva giù aggressiva come se ce l’avesse proprio con me. Mi piaceva il verde degli ippocastani, tenerissimo e stillante dopo un temporale a maggio. Lavoravamo chini sui nostri rispettivi dattiloscritti, tra lunghi silenzi e lunghe telefonate, in massima parte di Calvino, che teneva i contatti con un’infinità di gente. «Aaah» sospirava rimettendo giù la cornetta, «Be’, meno male?» oppure si lanciava in una breve esasperata invettiva contro il suo misterioso interlocutore. Un giorno ormai imprecisabile di un anno imprecisabile (ma c’è un termine ad quem) mi chiese perché non mi iscrivessi al partito comunista. Era un segno di amicizia e di stima, giacchè sarebbe stato eventualmente lui il presentatore, il garante del compagno Fruttero. Ma il compagno Fruttero aveva letto nel frattempo le memorie di Koestler, di Victor Serge, nonché i romanzi di Ambler, e s’era messo in testa la romantica idea che per fare il comunista ci fosse bisogno di una autentica vocazione, in lui del resto mancante. Quei ”rivoluzionari di professione” degli anni eroici avevano costituito una congregazione simile a quella dei Gesuiti, che imponeva ai suoi sceltissimi membri una disponibilità totale, voti di obbedienza e povertà, rinuncia come minimo a tutti gli agi della vita borghese. Se uno non faceva il comunista così, che comunista era? Calvino ridacchiò di quelle ingenue obiezioni. I tempi erano cambiati - minimizzava - il partito non ti chiedeva più un impegno così fanatico, una dedizione così integrale. Ma allora uno poteva - insistevo io - tenersi le giacche inglesi con le pezze di cuoio ai gomiti, aspirare a una potente auto sportiva, bere il suo sherry prima di cena? Come no - diceva Calvino, bonario - come no. Quella mia visione estremistica, religiosa, non aveva nulla a che fare con un partito ormai di massa, che ai suoi intellettuali chiedeva semplicemente di essere presenti in sezione, e nemmeno sempre. «Te la cavi con qualche riunione noiosa e col carro allegorico del Primo Maggio», mi chiarì incoraggiante. Quale carro allegorico? Il carro che la sezione einaudiana apprestava ogni anno per la grande festa del lavoro e sul quale si saliva e si sfilava per il centro della città. Non chiesi se bisognava travestirsi, mettersi costumi da intellettuali, corone d’alloro in testa, levando alta un’enorme stilografica di cartapesta. Ma pensai non so bene perché a quando, molti anni prima, ai tempi dell’asilo infantile (’Le Fedeli Compagne di Gesù”, si chiamavano quelle suore francesi), avevo sparso a manciate petali di rose sul cammino del cardinale arcivescovo, via via che avanzava per un vialetto del vasto giardino. Tutto fiero del mio cestino, del mio gesto, del mio impegno. Il telefono di Calvino suonò, qualcuno lo incastrò in una lunga conversazione e il suo affettuoso tentativo di proselitismo, che a ripensarci gli doveva essere costato un certo sforzo, ebbe fine. Non tornammo mai più sull’argomento e a mettere un’ultima pietra sulle nostre giovanile frivolezze venne ben presto il termine ad quem, la rivolta di Budapest nel 1956, dopo la quale non credo ci siano più stati carri allegorici per il Primo Maggio. Carlo Fruttero