Giuseppe D’Avanzo la Repubblica, 16/05/2002, 16 maggio 2002
Calabresi visse i suoi ultimi due anni più solo di una casa sgomberata, la Repubblica, giovedì 16 maggio 2002 «Il 17 maggio del 1972, intorno alle 9
Calabresi visse i suoi ultimi due anni più solo di una casa sgomberata, la Repubblica, giovedì 16 maggio 2002 «Il 17 maggio del 1972, intorno alle 9.15, il commissario della Polizia Luigi Calabresi - addetto all’Ufficio Politico della questura di Milano - veniva assassinato con due colpi di revolver esplosigli alle spalle da un giovane mentre era per aprire la sua vettura Fiat 500, parcheggiata vicino allo spartitraffico della via Cherubini, all’altezza del civico n. 6, contrassegnante l’edificio ove egli abitava». (Dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 21 ottobre 1992). * * * Mario Calabresi, che aveva due anni quando gli uccisero il padre e ricorda soltanto che un giorno se lo tirò a cavalcioni sulle spalle per mostrargli la sfilata degli Alpini, oggi dice che «no, non è vero, il terrorismo non cominciò quel giorno in via Cherubini. Era cominciato tre anni prima, in piazza Fontana...». Non si può ricordare Luigi Calabresi senza rammentare la bomba della Banca Nazionale dell’Agricoltura e non si può pensare a quella strage (12 dicembre 1969, furono 16 i morti e 88 i feriti) dimenticando Pino Pinelli, «il ferroviere», «l’anarchico» che tre giorni dopo volò dal balcone del quarto piano della Questura di Milano. Ancora. Chiunque può convenire che è difficile raccontare la morte di Luigi Calabresi lasciando in un canto Adriano Sofri, condannato come mandante di quell’omicidio e orgogliosamente determinato a fottersi in un carcere, pur di affermare la sua estraneità, e l’estraneità di ”Lotta Continua”, a quella morte. Sono trent’anni, e ancora è dubbio che si possa ricordare la vita e la morte di Luigi Calabresi nella serenità di non provocare nuove vampe d’odio o di avvelenato fiele. L’assassinio del commissario è ancora oggi un nodo che stringe i fili di altre storie in richiami e passioni che non hanno trovato una ragione condivisa per comunicare. In questo nodo che incuba il risentimento come una muffa si tocca con mano soprattutto il destino che divora gli innocenti. Era innocente Luigi Calabresi quando lo colpirono alle spalle, il 17 maggio di trent’anni fa. Era innocente Pino Pinelli quando volò dal balcone della Questura di Milano, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969. è innocente per molti Adriano Sofri, anche lui morto, in fondo, come Calabresi e Pinelli: «morto», voglio dire, anche se soltanto nel corpo perché una sentenza inappellabile lo ha fatto prigioniero fino alla decrepitezza tra le mura del carcere di Pisa. Calabresi. Pinelli. Sofri. Tre esistenze che si incrociano nel viluppo di una storia italiana che non riesce a trovare la strada verso una verità accettata e soffoca quasi per vendetta, impotenza o malafede i protagonisti che con la loro vita (o morte) ne hanno sfidato le contraddizioni e i silenzi. * * * Luigi Calabresi non era nel suo ufficio al quarto piano della Questura di Milano quando Pino Pinelli volò giù di sotto nel cortile. Il mito, nella storia dell’Italia unita, sa essere anche «elemento artificialmente manipolato del discorso pubblico» (Ernesto Galli della Loggia). Nel catalogo italiano dei miti senza fondamento e fatti riscontrabili, un capitolo merita il coinvolgimento di Luigi Calabresi nella «defenestrazione» dell’anarchico. Lui, il commissario, andò a prelevarlo al circolo di via Scaldasole. Calabresi nella ”850” blu della polizia, Pinelli a cavallo del motorino ”Benelli”, raggiungono la Questura. Erano uomini del commissario, i Panessa, i Caracurta, i Mainardi, i Mucilli che interrogarono illegalmente per tre giorni il ferroviere. Quella notte, doveva essere dunque lui, il commissario, a dirigere le torture, a organizzare il «suicidio». Era Luigi Calabresi l’assassino. Luigi Calabresi non era «uno sbirro», se si pensa allo sbirro come a un cagnesco questurino tentato dal gioco sporco. Trentatré anni quando morì, sposato con due bambini, romano, figlio di una famiglia medio-borghese, liceo classico al San Leone Magno, laurea in giurisprudenza con una tesi sulla mafia, molta passione per il cinema e il teatro, qualche ambizione letteraria, Calabresi teneva a sembrare diverso dal cliché scuro e storto del poliziotto di quegli anni. Giampaolo Pansa, che lo conobbe e lo incontrò quaranta giorni prima dell’assassinio, ricorda «l’aria cordiale e alla mano: legge molto e cerca di capire le idee e gli uomini della sinistra extraparlamentare» che diventano «il suo lavoro». Uno degli uomini che incontra è un anarchico sui 40 anni, capo smistamento allo scalo Garibaldi, Pino Pinelli. «Calabresi impara a conoscerlo bene - scrive Pansa in una memorabile cronaca del 18 maggio 1972 - lo vede nei cortei e qualche volta in questura, dove lo convoca. Il mestiere è mestiere, ma i rapporti sono tali che, per Natale, Calabresi regala al Pinelli un libro, Mille milioni di uomini, di Enrico Emanuelli. Il ferroviere sembra orgoglioso di quel regalo, lo mostra a tutti, racconta da chi proviene e, così si dice, pare che lo ricambi, mandando a Calabresi una copia del suo libro preferito, quello da cui sarà tratta la frase poi incisa sulla sua tomba: l’Antologia di Spoon River». * * * Il 12 dicembre 1969, con le bombe alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, una generazione perse la sua innocenza, è stato scritto. Accadde di più. «Morì un pezzo significativo della Prima Repubblica: una parte consistente dell’apparato statale passò consapevolmente nell’illegalità. Si pose come potere criminale continuando a occupare istituzioni vitali ed essendone tollerato» (Marco Revelli). Anche Luigi Calabresi non è convinto dalle apparenze, da quelle tracce che conducevano dalle bombe al mondo della sinistra. «Gigi - ha scritto la moglie, Gemma Capra - si convinse che la matrice degli attentati non fosse da ricercarsi esclusivamente nella sinistra eversiva. Egli prese a dubitare sempre più fortemente finché un giorno, non molto tempo prima di essere assassinato, mi disse: ”Gemma, ricordalo: menti di destra, manovali di sinistra”. Aveva capito che chi tirava i fili era gente molto più su, gente seduta dietro la scrivania: gli strateghi della tensione, appunto». (Mio marito, il commissario Calabresi, Edizioni Paoline, 1990). Nella generazione tradita dallo Stato, nell’anno in cui comincia quella lunga «notte della Repubblica» che conterà 2.712 attentati terroristici, 351 morti, 768 feriti, migliaia di giovani processati e condannati negli anni 70 e 80 per partecipazione a banda armata, anche Luigi Calabresi diventa vittima di quel tradimento. Egli è icona e incarnazione della violenza dello Stato per chi, nella sinistra, sceglie il modello politico-ideologico strutturato intorno all’antitesi fascismo/antifascismo e capro espiatorio e agnello sacrificale di uno Stato che, per allontanare da se stesso l’accusa di stragismo e di tradimento, scarica su un suo limpido servitore ogni responsabilità per la morte di Pino Pinelli. * * * Per due anni, Luigi Calabresi fu un uomo più solo di una casa sgomberata. I muri della città gli gridavano annunci di morte e «assassino» e «wanted» e accanto a lui non accorreva nessuno. «Da due anni sto sotto questa tempesta - raccontò prima di morire a Giampaolo Pansa - e lei non può immaginare cosa ho passato e cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non so come potrei resistere...». Si disse e si scrisse che fosse un uomo della Cia. Si disse che fosse stato il gorilla del generale Edwin A. Walker. Si disse che frequentava i salotti del Sifar-Sid, che fosse uomo dei generali Aloja e De Lorenzo. ”Lotta Continua” era in prima fila in questo assalto, ma non fu soltanto ”Lotta Continua” ad aggredire il commissario. Quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali, comprese alcune cattoliche, sottoscrissero «a nome di 500 mila abbonati» un documento di solidarietà a ”Lotta Continua”. Vi si leggeva: «Sulla base delle informazioni rese pubbliche dalla stampa è lecito ritenere che Pinelli non si è suicidato». «Non posso più fare un passo - confidava Luigi Calabresi -. è bastato che mi vedessero uscire dall’obitorio per sostenere che avevo cominciato a trafficare intorno al cadavere di Feltrinelli con i candelotti di dinamite. Ma che Paese è mai diventato questo?». * * * Decise di difendersi, da solo. Avrebbe preferito che lo facesse lo Stato. Da Roma, dal Viminale arrivavano soltanto pressioni perché querelasse. Come se quell’accusa dovesse bruciare soltanto nella sua carne e non nella credibilità dell’istituzione che egli serviva. «Quando Gigi mi annunciò che avrebbe querelato ”Lotta Continua” la mia reazione fu netta: ”Non lo devi fare”», ricorda la moglie Gemma. «In questura vogliono che io quereli, mi daranno un buon avvocato», rispose. «Ma chi è che lo vuole, il questore?», chiese la moglie. «No, proprio il ministero». C’è un’immagine di quel processo. Ferma il volto di Luigi Calabresi al palazzo di giustizia al termine di un’udienza. Il commissario ha gli occhi smarriti, guarda un punto lontano nel vuoto. Nel corridoio c’è una folla in tumulto che gli grida «assassino», che gli sputa addosso. Nello sguardo del commissario c’è la sua solitudine. Intorno fisicamente non ha nessuno. Anche i due uomini della scorta sembra che si tengano lontano qualche metro da lui. Gemma Calabresi così ricorda quei giorni: «Non meno di mille giovani della sinistra extraparlamentare gremivano il palazzo di giustizia portando appiccicati agli eskimo autoadesivi con le scritte giudici fascisti complici dell’assassino Calabresi». Il giorno del suo interrogatorio forse fu il più terribile della breve vita di Luigi Calabresi. Ecco una cronaca, una delle tante: «Ha una voce bassa ed educata, ma si guarda bene dal girare l’occhio all’intorno, perché se lo fa e si imbatte nel pubblico, da dietro lo steccato l’ira scoppia e parte l’ingiuria... Per oggi Calabresi ha finito di deporre, ma non lo lasciano uscire e resta fermo, con la mascella che gli vibra, di fronte alla Corte in mezzo a due carabinieri. Molti del pubblico scandiscono il loro slogan rivolto al commissario che sta in piedi di tre quarti: ”Assassino! Assassino!”, gli gridano, chi gli lancia contro dei giornali, chi qualche monetina, il presidente scampanella furioso, la seduta è sciolta, un usciere apre frattanto la porta al pubblico, ma Calabresi lo fanno aspettare. E resta lì, solo in aula, con la sua scorta, finché fuori cala il silenzio». Ricorda Enrico Deaglio: «Andavamo in centinaia al Palazzo di Giustizia. è vero, la nostra fu una campagna violentissima. Calabresi ne divenne l’oggetto per fare verità sulla morte di Pinelli. Volevamo un processo, volevamo provocarlo per cercare le responsabilità di chi defenestrò l’anarchico. Il processo ci fu. Anche se fu interrotto per legittima suspicione...». * * * Luigi Calabresi era come rassegnato. Annotò di nascosto su un foglio di giornale che lo pedinavano. «3.11.71. Mi pedinano. Due giovani. Rilevato targa mia vettura». Possedeva una piccola pistola automatica, una Beretta 6,35, ma la teneva nascosta sotto le camicie, in un cassetto del comò a casa. Un giorno, Gemma, che non la vede più lì, gli chiede: «Dov’è finita la pistola?». Gli rispose che l’aveva in ufficio. «Perché non la tieni indosso come i tuoi colleghi?», gli domandò. «No, non la porto perché non avranno mai il coraggio di spararmi guardandomi negli occhi. Se mai decidessero di spararmi lo faranno alle spalle. E allora, avere una pistola non mi servirebbe a niente». Gli spararono alle spalle. «Quella mattina, Gigi si era svegliato prima del solito. Si era messo a leggere alcune pagine di Krusciov ricorda, il libro sul quale, la sera precedente, s’era addomentato. Era un divoratore di libri e giornali. Alle 8 si alzò per prepararmi il caffè, come al solito. Intanto, s’erano svegliati anche i bambini e dovetti a mia volta alzarmi per la colazione. Gigi mi aiutò, come sempre. Era di ottimo umore, scherzò a lungo con Mario giocando con lui. Poi si vestì. Fece colazione e andò in bagno a pettinarsi. Avere i capelli sempre a posto, era una sua piccola mania...». * * * Adriano Sofri ha scritto che «la campagna contro Calabresi è stata un’infamia». Ma ripete anche che «è un’infamia ritenerlo il mandante dell’omicidio». Leonardo Marino ha raccontato che quattro giorni prima dell’assassinio - era il 13 di maggio - incontrò Sofri a Pisa. ”Lotta Continua” era riunita lì per commemorare la morte dell’anarchico Franco Serantini. Alla fine del comizio di Sofri - proseguono le sentenze - Marino lo avvicina e, dopo una breve sosta in un bar, si appartano per un breve colloquio. Nel corso del dialogo, Sofri gli conferma la decisione dell’attentato. Il racconto di Marino è pieno di buchi e contraddizioni, ma è stato sufficiente per la condanna di Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri anche se, soltanto a tempo scaduto, l’avvocato di Marino, Gianfranco Maris, ha confidato che forse Marino potrebbe aver equivocato le parole o i gesti di Adriano Sofri. In un sol punto le esistenze di Calabresi, Pinelli e Sofri possono concordare: nel fallimento della giustizia. Luigi Calabresi chiedeva in tribunale la difesa della sua onorabilità. Non la ebbe. Il giudice che doveva pronunciarsi anticipò le sue convinzioni in privato e il processo si spense nella legittima suspicione. Licia Pinelli chiedeva a un tribunale come il marito fosse morto. Ne ha ricavato soltanto una sentenza che spiega il «malore attivo» dell’anarchico Pinelli. Soluzione degna di una commedia buffa, non di una sentenza, tantomeno della verità. Adriano Sofri è in carcere a Pisa. Ci resterà fino al 2019. , alla fine di questi tragici trent’anni, il solo destino che, invocando per se stesso ancora giustizia, chiede anche una verità per Luigi Calabresi. Giuseppe D’Avanzo