Giampaolo Pansa La Stampa, 18/05/1972, 18 maggio 1972
Un commissario che non voleva sembrare uno sbirro, La Stampa, giovedì 18 maggio 1972 «Da due anni sto sotto questa tempesta, e lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando
Un commissario che non voleva sembrare uno sbirro, La Stampa, giovedì 18 maggio 1972 «Da due anni sto sotto questa tempesta, e lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere...». Calabresi parlava con me nell’ufficio di Allegra, il capo della politica di Milano, aveva il suo solito pullover con il collo alto e un’aria piena di risentimento e di amarezza. Era una mattina di fine marzo, uno dei giorni del «caso Feltrinelli», tutti eravamo corsi in questura per notizie, ed ecco questo incontro brevissimo, casuale. «Non posso più fare un passo - disse quasi tra sé - è bastato che mi vedessero uscire dall’obitorio per sostenere che avevo cominciato a trafficare attorno al cadavere di Feltrinelli, coi candelotti di dinamite...». Parlava rapido, sicuro, passandosi la mano sul viso: «Ma che paese è mai diventato questo? A volte ti vien voglia di...». Allegra ascoltava in silenzio, poco prima s’era discusso dei piccoli nuclei di neo-terroristi che, mese dopo mese, prendevano forza e si facevano più aggressivi: «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti...», aveva mormorato Allegra. Guardai Calabresi e non potei non chiedergli: «Ha paura?». «Paura no, perché ho la coscienza tranquilla. Però è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire da Milano, ma da Milano non voglio andarmene. No, non ho paura...». Mi fissava, ormai sorridendo, ma nella stanza c’era come un silenzio pieno d’imbarazzo, un senso di disagio. Adesso per il commissario Calabresi la tempesta è finita. Sta all’obitorio con tre proiettili in corpo, ultima vittima di quella spirale di odio che dal 12 dicembre 1969 sembra avvolgerci tutti, senza respiro. E il cronista angosciato oggi deve scrivere la storia di questo funzionario di polizia che senza saperlo aveva cominciato a morire la sera di piazza Fontana, quando s’era trovato per mestiere al centro di un dramma forse più grosso di lui. Un funzionario giovane, 33 anni in quel momento, sposato e con due bambini, romano, figlio di una famiglia medio-borghese, liceo classico al ”San Leone Magno”, laurea in giurisprudenza con una tesi sulla mafia, molta passione per il cinema e per il teatro e qualche ambizione letteraria. Il suo lavoro In quel dicembre pieno di paura, Calabresi è a Milano da quattro anni. Nel 1965 ha vinto il concorso per vicecommissario, nel 1966 è entrato nell’ufficio politico, nel 1968 è stato nominato commissario aggiunto, una promozione automatica e non per meriti speciali. Ama il suo mestiere, è un gran lavoratore, i superiori lo giudicano molto intelligente e colto. Lui ci tiene a sembrare diverso dal cliché un po’ grigio del mestierante di questura: veste disinvolto, ha un’aria cordiale e alla mano, legge molto e cerca di capire, nelle idee e negli uomini, il settore che gli è stato affidato, quello della sinistra extraparlamentare. Uno degli uomini che incontra è un anarchico sui 40 anni, capo smistamento allo scalo Garibaldi, Pino Pinelli. Allegra e Calabresi lo conoscono bene, l’hanno visto in tanti cortei, l’hanno convocato in questura più di una volta. Il mestiere è mestiere, ma i rapporti sono tali che per il Natale del ’68 questi due «sbirri» regalano al Pinelli un libro, Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli. Il ferroviere sembra orgoglioso di quel regalo, lo mostra a tutti, racconta da chi proviene e, così si dice, pare che lo ricambi mandando a Calabresi una copia del suo libro preferito, quello da cui sarà tratta la frase poi incisa sulla sua tomba: l’Antologia di Spoon River. Siamo nel ’69, e in quell’anno il mestiere di Calabresi a Milano diventa sempre più difficile e ingrato. Ci sono le bombe del 25 aprile alla Fiera, gli arresti dei primi anarchici, poi gli ordigni di agosto sui treni, le manifestazioni di protesta, gli scioperi della fame davanti al palazzo di giustizia. I rapporti tra i commissari della politica e gli anarchici si fanno tesi, qualcuno sostiene che Pinelli viene minacciato, Milano è ormai una città pervasa da un timore ansioso, dove ogni giorno può accadere l’irreparabile. Ed ecco il pomeriggio del 12 dicembre, la valigia esplosiva che porta la strage nella Banca dell’Agricoltura, i morti, i feriti, il terrore. Una formalità Quella sera vediamo Calabresi nel bar dinanzi alla questura. Dice (e la frase esce sui giornali) che l’attentato dev’essere cosa di anarchici. Logico che i corridoi dell’ufficio politico siano pieni di costoro. C’è anche Pinelli. Il commissario l’ha incontrato verso le 18 al circolo di via Scaldasole: «Vieni in questura - gli ha detto -, è una formalità...». E Pinelli ci va, non sale sulla ”850” blu della polizia, ma la segue a cavallo del suo motorino ”Benelli”, un tragitto lento attraverso il traffico convulso di Milano, nebbia, smog, fari di auto, semafori rossi, adagio adagio, verso la sua morte. Pinelli muore tre notti dopo, precipitando nel cortile della questura dalla finestra dell’ufficio del commissario. La moglie apprende la notizia da tre cronisti che le dicono: «Telefoni a Calabresi». Lei telefona: «Perché non mi avete avvisata?». E Calabresi, secondo il racconto di lei, le rispose: «Signora, abbiamo troppo da fare». Due ore dopo, il commissario con altri funzionari è accanto al questore Guida nella incauta conferenza stampa in cui Pinelli non soltanto è definito suicida ma bollato come complice della strage. Calabresi dice appena una frase: «Lo credevamo incapace di violenza, invece... è risultato collegato a persone sospette». Sulla fine di Pinelli la Procura apre un’inchiesta, affidata al sostituto Caizzi. Ma in quei momenti di esasperata passione politica, è difficile per molti aspettare. Altri, poi, non hanno nessuna fiducia nelle indagini «ufficiali». La polizia milanese comincia ad essere accusata in blocco della morte dell’anarchico, si parla di «punti oscuri», poi affiora la tesi dell’assassinio. E tra gli uomini della polizia la scelta dell’assassino ricade sul giovane commissario. Pinelli è caduto dalla sua finestra, lui lo stava interrogando, quindi è lui che lo ha ammazzato. Le prove? Non ci sono, ma non importa. Il commissario non lo sa, ma quello è l’inizio della sua condanna a morte. I gruppi della sinistra extraparlamentare lo scelgono come bersaglio nella loro polemica sempre più feroce contro la polizia. «Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto» titola ”Lotta continua” il 21 febbraio 1970. A sinistra c’è la foto dell’attore Volonté, a destra quella di Calabresi: «Due commissari - dice la didascalia - quello di sinistra ha già confessato». Numero dopo numero, le accuse si fanno più roventi e i disegni tutti centrati sul tema «Calabresi assassino», via via più indegni, sino a quello del commissario che, con una piccola ghigliottina, insegna alla figlia come tagliare la testa ad una bambola che sulla camiciola porta la ”A” degli anarchici. Non serve che Calabresi, mostrando più cautela che in quella concitata notte di dicembre, dica di Pinelli: «Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo». Non serve che non esista non soltanto una prova, ma neppure un indizio consistente della responsabilità sua e dei colleghi che si trovavano nell’ufficio con lui quella notte. La macchina del linciaggio è ormai in moto. Sulla facciata di casa sua, allora in via Mario Pagano, compare una scritta gigantesca: «Assassino di Pinelli». Nei cortei si grida: «Calabresi sarai suicidato». Si cantano ballate sul suo conto, Dario Fo prepara Morte accidentale di un anarchico, Calabresi è uno dei personaggi: «il commissario Cavalcioni». «Cavalcioni» perché adesso riappaiono storie vecchie di interrogatori accanto alla finestra di quella stanza di questura. Paolo Braschi, uno degli anarchici, rinviato a giudizio (e poi assolto) per le bombe alla Fiera, accusa: «Calabresi mi fece sedere vicino alla finestra aperta e, tenendosi a distanza, lui ed altri mi provocarono apertamente chiedendomi perché non mi buttassi sotto». La polizia nega. Gli anarchici insistono: parlano di interrogatori pesanti, di pugni, di pressioni morali. Poi arrivano le accuse più fantastiche: Calabresi agente della Cia, ha fatto un corso speciale in America (lui che non c’è mai stato), è un pezzo grosso, è il vero padrone della questura di Milano. Calabresi invece è soltanto un commissario che quando viene promosso commissario capo vede i muri di Milano tappezzati di manifesti a colori, impressionanti, che lo mostrano con le mani alzate, lorde di sangue, e sotto la scritta: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari». I giornali dei gruppetti ripetono instancabili: «Assassino». Lui il 20 aprile 1970 querela il direttore di ”Lotta continua”, Pio Baldelli, che ha dato il la alla campagna. E nell’ottobre 1970 - dopo che l’inchiesta affidata a Caizzi è già stata archiviata dal capo dell’ufficio istruzione Amati, non ravvisandosi nella fine di Pinelli gli estremi per un’azione penale - affronta il processo. La prova più dura , per Calabresi, la prova più dura. Il palazzo di giustizia è stretto d’assedio, jeep, gipponi, idranti, sui muri ci sono dei manifesti nuovi ma sempre tutti per lui: «Wanted», ricercato, e la cifra che tocca a chi lo prenderà vivo o morto. Il commissario depone il 14 ottobre. Riafferma la propria innocenza. Pinelli si è gettato dalla finestra, lui in quel momento nell’ufficio non c’era. Il suo racconto si snoda di fronte ad un pubblico di giovani inferociti che lo interrompono ad ogni frase, scandendo: «Assassino, assassino». «Buttati», «Buffone». Per consentirgli di lasciare l’aula, il vicequestore Vittoria deve ordinare una carica nei corridoi, e lui aspetta come paralizzato, seduto sul podio, sotto il tiro di monetine e giornali. Il processo continuerà come continuano tutti i processi politici: con gli avvocati di Baldelli, che fanno il loro mestiere, che sottolineano ogni contraddizione nei racconti degli uomini che quella notte stavano attorno a Pinelli, che tentano di trasformare Calabresi da querelante in imputato. Si arriva al 1971 col dibattimento ancora aperto, e il marzo di quell’anno vede, in un processo contemporaneo, l’assoluzione degli anarchici sui quali Calabresi aveva indagato per le bombe alla Fiera. Infine, il tribunale decide che la salma di Pinelli sia riesumata per una nuova perizia, e il patrono del commissario, l’abile Lener, replica con la ricusazione del presidente della Corte, Biotti. Ormai Calabresi è retrocesso a comparsa di una guerriglia sempre più aspra, che viene combattuta su fronti diversi. Il 24 giugno 1971 la vedova Pinelli lo denuncia, con Allegra e gli altri, per omicidio volontario nei confronti del marito. La Procura generale apre una nuova istruttoria e manda a Calabresi un avviso di procedimento, ma soltanto per omicidio colposo. Egli, quella notte, «ad interrogatorio ultimato, avrebbe omesso di impartire le opportune disposizioni per la vigilanza e la custodia del fermato... che così poteva, con mossa improvvisa, precipitarsi dalla finestra sita al quarto piano dell’edificio». Suicidio, dunque, non omicidio, e Calabresi, tutt’al più, è un funzionario negligente, non un assassino. Questa l’ipotesi di partenenza dell’inchiesta, un’inchiesta che se fatta subito con quell’ampiezza, forse avrebbe troncato sul nascere la campagna di linciaggio ed evitato l’assassinio di oggi. Il 5 ottobre Calabresi riceve un secondo avviso di procedimento, questa volta per omicidio volontario, perché legato alla denuncia della vedova Pinelli. Non è ancora un’incriminazione, e lui aspetta: «Ho fiducia nella magistratura», dice. Ma la sua vita e quella di sua moglie e dei suoi bambini diventano durissime. Riceve centinaia di lettere di morte, centinaia di telefonate anonime, deve cambiare il numero dell’apparecchio telefonico quattro volte, poi è costretto a cambiare anche casa. Un inferno per un innocente (e Calabresi, sino a quando qualcuno dimostrerà il contrario , è innocente di fronte alla fine del Pinelli). Lui continua a lavorare, anche se in condizioni sempre più difficili: non deve farsi vedere nei cortei, il suo impegno in indagini politiche apre problemi delicati perché gli effetti della campagna di linciaggio sono ormai talmente profondi che la sua sola presenza basta, assurdamente, per far gridare al complotto, per far ritenere «inquinata» qualsiasi inchiesta. E il commissario segue tutto, legge tutti i libri, tutti gli articoli, si annota ogni passo che lo riguarda, forse rodendosi per non poter fare quello che il ministero gli ha certo vietato: esplodere, gridare ciò che gli brucia dentro... Chi lo cerca in questura per intervistarlo, trova un uomo in apparenza calmo, ma alle prese con prove ogni giorno più difficili. Di sé non vuole parlare, dice soltanto qualcosa dei sottoufficiali che erano con lui quella notte: «Poveracci, la loro vita, i sacrifici delle loro mogli può immaginarseli... Io, ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei principii, nell’educazione che ho avuto, la forza di superare questa prova. Ed anche loro, che stanno passando quello che passano solo per il fatto di essersi trovati nella stanza quando Pinelli s’è buttato...». La trappola Ricordo il suo volto quella mattina di marzo: gli occhi mobilissimi, il sorriso un po’ nervoso, gesti quasi trattenuti, un muoversi rapido nelle stanze della Questura. Oggi, di fronte a quel giovane padre di famiglia accoppato sul marciapiede di casa, provo una pena profonda a scriverlo, ma allora ebbi per un istante la sensazione della bestia braccata, dell’uomo che sente tendersi attorno a sé una trappola senza scampo. Quella trappola è scattata stamane, in base ad un disegno ancora oscuro che però fa tremare di sgomento chi, come noi, non dispera ancora di poter vivere in un Paese libero e civile. Giampaolo Pansa