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 2002  maggio 10 Venerdì calendario

L’America ci ha rubato il mercato dell’arte, la Repubblica, venerdì 10 maggio 2002 Vi diranno che l’ufficio ”3 D” non esiste

L’America ci ha rubato il mercato dell’arte, la Repubblica, venerdì 10 maggio 2002 Vi diranno che l’ufficio ”3 D” non esiste. Ma c’è. In qualsiasi casa d’aste un piccolo ufficio è riservato a un signore che legge i quotidiani e le riviste facendo bene attenzione a ”disasters, divorces, deaths”- ecco le 3 D - disastri, divorzi e morti naturali. Sono tre eventi che possono dar luogo alla vendita di mobili, dipinti, sculture... L’ufficio ”3 D” è soltanto un piccolo, curioso ingranaggio, della complessa macchina che muove il mercato dell’arte, sempre più difficile da capire e sempre più globale, dove si incontrano e scontrano collezionisti, mercanti, musei e soprattutto società di vendita all’asta, che cercano di disegnare un presente e un futuro in grado di garantire loro il dominio delle transazioni. Ed è questa la partita in corso, una dura lotta tra galleristi e società di vendita all’incanto, i primi con il 48 per cento del business mondiale e i secondi con il 52 per cento, dove gli Stati Uniti giocano e giocheranno un ruolo strategico se è vero che nel 2001, come sostiene uno studio dell’European Fine Art Foundation, il valore degli affari consumati complessivamente oltre oceano ha superato, per la prima volta nella storia, quelli del Vecchio Continente: 12,5 miliardi di euro contro poco più di 12 miliardi. Siamo secondi in classifica ed è ”colpa”della globalizzazione. Mercanti e galleristi corrono ma le case d’asta sono più veloci, usano Internet, spostano fisicamente le opere in quei paesi le cui giurisdizioni favoriscono i loro clienti. Negli Stati Uniti il mercato è libero, in Europa quasi sempre è sottoposto a verifiche e controlli, a leggi e leggine che non aiutano il possesso e la circolazione di dipinti e sculture. Di conseguenza prendono il volo, legalmente o illegalmente, come testimoniano i numerosi processi celebrati in Italia e nei paesi del Mediterraneo per la sottrazioni di splendidi reperti archeologici, o l’esportazione non autorizzata di tele appartenute ad antiche casate. C’è anche un altro effetto negativo che riguarda in modo particolare l’Italia: le opere una volta acquistate all’estero non vengono più importate bensì ”importate temporaneamente”, possono cioè lasciare il paese in qualsiasi momento. La conseguenza di tutto questo - e che colpisce anche l’Inghilterra, leader europeo del settore - è che il futuro sembra sempre più nelle mani della grandi major, che hanno punti vendita, sale e saloni, a Hong Kong come a Stoccolma, a Roma come a Sidney e che, ovviamente, ”favoriscono” New York. E questa mondializzazione ha messo in crisi i grandi mercanti, soprattutto quelli europei. Non chiudono i battenti ma si ridimensionano, lasciano le botteghe e si rifugiano in piccoli studi, si presentano al pubblico attraverso le mostre-mercato, ormai sempre più numerose, e magari vendono le loro opere proprio attraverso le aste. Hanno dominato per un secolo, ora sembrano destinati a lasciare il bastone del comando.  una trasformazione epocale ancora in corso, che ha preso il via nell’ultimo trentennio e che pare destinata a non fermarsi anche se il 2001 per le aste sarà ricordato come un annus horribilis. I bilanci dei due colossi del mercato, Sotheby’s e Christie’s, segnati dall’attentato dell’11 settembre, hanno visto calare i profitti del 16 e del 23 per cento, pur avendo fatturato la prima 1,6 bilioni di dollari, la seconda 1,8 bilioni di dollari. A questo vanno aggiunti i guai giudiziari. Alfred Taubman è stato costretto a lasciare la presidenza di Sotheby’s, di cui è il maggior azionista, dopo essere stato messo sotto accusa e condannato a un anno e un giorno di prigione (e al proprio mantenimento durante la reclusione: ventunmila dollari) per collusione con Christie’s sulla determinazione delle commissioni di vendita da applicare alla clientela. una questione che non è del tutto chiusa: da poco è stata avviata un’inchiesta a livello di commissione europea. Bufere giudiziarie, come è noto, hanno attraversato l’Italia dove è finito in carcere per una vicenda di false serigrafie Giorgio Corbelli, presidente di Telemarket, società che vende arte attraverso i canali televisivi, e che controlla, direttamente o indirettamente, le due maggiori case del Bel Paese, Finarte e Semenzato. Oggi è in libertà, ma in attesa di giudizio. Eppure l’aura delle vendite all’asta non sembra particolarmente scalfita da questi gravi episodi. L’altro ieri a New York Sotheby’s ha battuto un Cézanne, Pichet et assiette de poires per oltre 17 milioni di euro e una scultura di Giacometti, una testa raffigurante il fratello dell’artista, Diego, per 14 milioni di euro (fu acquistata nel 1956 da un collezionista americano per 5.000 dollari); il giorno prima, sempre a New York, Christie’s ha aggiudicato per cifre record Brancusi (quasi 20 milioni di euro per una scultura) e Magritte (poco meno di 14 milioni di euro). E tra giugno e luglio a Londra da Sotheby’s saranno in vendita un Monet da 15 milioni di euro, un Rubens da 9 milioni di euro, un Rembrandt da 23 milioni di euro. Sono cifre roboanti, che soddisfano gli appetiti della società dello spettacolo che ama le vendite pubbliche, la gara. anche per questo che i mercanti hanno perso, lentamente, molte regioni di un regno che sembrava inconquistabile. Per loro, per gran parte del Novecento, le aste sono state delle semplici retrovie, un luogo di rifornimento. Ma dagli anni Settanta è iniziato un cambiamento che spesso è stato così veloce e violento che molti sono stati colti di sorpresa. Il marketing delle società si è fatto aggressivo ed è mutato il modo di intercettare la clientela (come testimonia anche l’ufficio ”3 D”) a cui vengono offerti servizi d’ogni genere, compresi quelli finanziari; i collezionisti sono diventati protagonisti in proprio (oltre a comprare hanno venduto attraverso le aste, e in questo è stato un maestro Hans-Heinrich Thyssen-Bornemisza); i musei attraverso i curatori sono intervenuti direttamente sul mercato spesso - soprattutto per l’arte contemporanea - condizionandolo pesantemente; sono cambiate le figure istituzionali con cui confrontarsi. Nel settore è arrivata la finanza internazionale: Bernard Arnault è nella casa Phillips (anche se ultimamente sembra in ritirata), e due vecchie istituzioni inglesi come Christie’s e Sotheby’s sono ormai controllate dal francese Francois Pinault e dall’americano Taubaman (adesso, così si dice, intenzionato a vendere). Questo è il quadro del mercato, delle aste, al cui interno, nonostante tutto, si avverte ”un senso di smarrimento: pochi grandissimi prezzi e poi un magma in cui è difficile orientarsi”. Così dice Casimiro Porro, che è presidente dell’Efa, la federazione delle case d’asta europee: «Il momento è di transizione» , le «opere di qualità di grandi maestri, nel mercato dell’antico sono sempre più difficili da reperire» mentre ”sul moderno e il contemporaneo noi europei abbiamo ben poche possibilità, non ci sono margini, il divario con gli Stati Uniti è spaventoso. E pochi sono gli artisti italiani in grado di reggere il confronto internazionale e anche quando lo sono... i prezzi americani per noi sono insostenibili. Quanti sono i collezionisti che possono investire quasi un milione di dollari in un’opera di Maurizio Cattelan? O tre milioni di dollari per un piccolo Matisse?». Ma il nodo vero è la qualità. «Se l’opera è di qualità non ha problemi a venderla il mercante. Non ha problemi ovviamente la casa d’asta. La questione è questa: qualità. La crisi è dovuta alla mancanza di oggetti importanti», sostiene Alvar Gonzalez-Palacios, storico dell’arte e gran frequentatore del mercato. In questa situazione l’Italia, con un modesto giro d’affari di 454 milioni di euro (204 milioni di euro dalle vendite all’asta, 250 milioni dai mercanti) e una legislazione restrittiva, sembra destinata ad avere ben poco spazio. Aggiunge Gonzalez-Palacios: « arrivato il momento di cambiare le regole. Ricordo però che i capolavori che sono usciti dal paese, come quelli della collezione Contini Bonacossi, hanno sempre avuto il permesso delle autorità. Se si vuol impedire l’esportazione di un’opera d’arte lo Stato provveda ad acquistarla. I soldi ci sono ma l’Italia continua a comportarsi come un paese povero. Non lo è e se ci sono problemi legati al mercato dell’arte i colpevoli non sono i privati. Il gran colpevole è lo Stato, il suo disinteresse». Non è così negli Stati Uniti dove l’attenzione per il mercato dell’arte è costante. E lo sarà ancor di più in futuro. Sono in testa e non molleranno la leadership di una corsa ai soldi e al potere, che decide le sorti dell’arte e degli artisti. Paolo Vagheggi