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 2002  maggio 16 Giovedì calendario

I Mondiali visti da ”El Diego”, la Repubblica, giovedì 16 maggio 2002 Roma. Se volete prepararvi al mondiale, a cosa significhi indossare la maglia della nazionale, a come vanno le cose in squadra, nello spogliatoio, in campo, con i compagni e con gli avversari e anche nelle camere da letto, accomodatevi

I Mondiali visti da ”El Diego”, la Repubblica, giovedì 16 maggio 2002 Roma. Se volete prepararvi al mondiale, a cosa significhi indossare la maglia della nazionale, a come vanno le cose in squadra, nello spogliatoio, in campo, con i compagni e con gli avversari e anche nelle camere da letto, accomodatevi. Io sono El Diego, che esce ora tradotto in italiano dalla Fandango, vi aiuterà a entrare spiritualmente e carnalmente nel calcio che più conta al mondo. Lo ha firmato Diego Armando Maradona, dentro non c’è tutta la sua vita, ma quello che c’è uno se lo può fare bastare. C’è il mondiale ’78 quello vinto in Argentina dall’Argentina, ma senza Diego, c’è quello dell’82 con Gentile («Ma gli italiani sanno marcare»), c’è quello dell’86 vinto da Maradona e la famosa partita contro l’Inghilterra («Col cavolo che era un incontro come un altro, stavamo difendendo la nostra bandiera, i ragazzi caduti, i sopravvissuti, era come recuperare qualcosa delle Malvine»), c’è quello di Italia ’90 («Bilardo mandò Goycochea a coprirmi, perché non mi vedessero piangere») c’è quello dell’efedrina a Usa ’94 («Avevo promesso a Claudia di non piangere, ma non riuscii a trattenermi»). Intanto beccatevi le sue pagelle su quelli che al mondiale ci saranno. Ronaldo, brasiliano. «Io non me la bevo, il ragazzo nella finale di Francia ’98 non l’ha neanche toccata, la palla. Però non è mai arrivato ad essere meglio di Romario o di Rivaldo. Mi ha fatto molta pena quando s’è fatto male di nuovo: l’ho visto piangere in campo e mi si è stretto il cuore». Suker, croato. «Un personaggio, ti fregava sempre, dava l’impressione di aver giocato molto meglio che nella realtà». Raul, spagnolo. «Ha classe, si è caricato il Real Madrid sulle spalle». Veron, argentino. «Ha una visione panoramica del gioco e molta personalità. Ha perso una buona occasione di stare zitto con alcune dichiarazioni che ha fatto su di me. E questa è una questione senza soluzione». Nakata. «Se tutti i giapponesi cominciassero a giocare come lui, saremmo perduti. Sa cosa vuol dire tirare la palla, dribblare». Beckham, inglese. «Anche se è molto preso dalla sua Spice Girl, qualche volta trova il tempo di giocare e lo fa bene». Caniggia, argentino. «Lo amo come un fratello. Non ho mai visto nessuno con un cambio di ritmo come il suo». Se poi volete sapere come ci si ricarica quando si è un po’ giù, prego servitevi. Italia ’90. «Ad un certo punto non ce la feci più a abbandonai il raduno. Presi la Ferrari e sparii per andare al ristorante, in centro a Roma. Avevo bisogno di vivere a modo mio. Mi tolsi lo sfizio di mangiare tre bruschette come antipasto e un piatto di spaghetti». Sull’arbitro italiano Agnolin, mondiale ’86. «Quell’Agnolin era tremendo: all’inizio avevamo provato a stargli addosso, a fargli pressione e lui ci aveva risposto: non mi assillate perché vi meno tutti». Su Falcao. «Lo incontravi fuori dal campo e sembrava un medico condotto». Sull’ex capitano e allenatore Passarella. «Preferisco essere un tossicomane che uno come lui: guadagnava 2 milioni di dollari e non voleva pagare i duemila dollari del suo conto telefonico, scappava a Monaco di Baviera per incontrarsi con la moglie di un giocatore della nazionale argentina e poi lo andava a raccontare come una prodezza nello spogliatoio della Fiorentina. Il suo ordine e disciplina consistevano nello spalmare di merda le serrature ai raduni per divertirsi con i compagni». C’è un pezzo di verità. «Potevo anche trovarmi a una festa di gala vestito di bianco, ma se vedevo arrivare un pallone infangato l’avrei stoppato con il petto». E l’ammissione che a volte le cose non sono semplici: «Confesso che non riuscivo a trovare una via d’uscita: un giorno dicevo che volevo giocare, un altro che volevo ritirarmi per sempre, un altro che volevo andare via dal paese. solo che non sapevo come vivere senza giocare a calcio». Emanuela Audisio