Sylvie Coyaud D, 7/05/2002, 7 maggio 2002
Abbiamo meno geni di un seme di riso, D, 7 maggio 2002 Che differenza passa tra un essere umano e una pianta di riso? Quando si tratta di pubblicarne il genoma la risposta è: nessuna
Abbiamo meno geni di un seme di riso, D, 7 maggio 2002 Che differenza passa tra un essere umano e una pianta di riso? Quando si tratta di pubblicarne il genoma la risposta è: nessuna. Lo scorso 5 aprile abbiamo assistito alla scena già vista un anno fa con i geni umani: sono state rese note due mappe. Quella dell’Oryza sativa indica, prodotta dall’Istituto di genomica di Pechino, è di pubblico dominio sul sito internet della GenBank. Quella dell’Oryza sativa japonica, di proprietà della Syngenta, multinazionale agro-biotech basata a Ginevra, è accessibile ai ricercatori a una condizione: che si impegnino, se scoprono geni non identificati in mezzo al Dna ”spazzatura” (preferiremmo si chiamasse ”incompreso”) o alle proteine collegate a geni già noti, a immettere i propri risultati nella GenBank in modo che entro un paio di anni le due mappe diventino una sola. Finalmente precisa. In Cina la notizia è stata accolta dalla stampa con toni esaltanti, ma è finita in prima pagina quasi ovunque. Si capisce: metà dell’umanità vive innanzitutto di riso e un terzo vive, male, di poco altro. Più complesse le reazioni nelle riviste specializzate e nelle conversazioni a tu per tu tra gli scienziati. Questi si dividono tra entusiasti: «fantastico, ora vedrete cosa tiriamo fuori»; prudenti: «è solo un inizio»; e sospettosi: «c’è sotto qualcosa». Qui proviamo a sintetizzare i vari pareri, ma a chi non ama gli aspetti tecnici suggeriamo di saltare direttamente al paragrafo dedicato ai sospettosi. Gli entusiasti sono genetisti che tentano di migliorare la qualità dei raccolti. Citano un proverbio cinese: «I beni più preziosi non sono né la giada né le perle ma i cinque semi», riso, grano, miglio, sorgo e mais. Grazie ai lavori di Michael Gale all’inizio degli anni Novanta, sanno che i genomi dei cereali sono ”colineari”: cioè si assomigliano e discendono da una stesso antenato. Dall’esperienza secolare dei contadini, sanno poi che rispetto al mais o al sorgo, per esempio, il riso ha un processo di fotosintesi più stentato, cioè non sfrutta altrettanto bene la luce del Sole. C’è poi il fatto che l’Istituto internazionale per la ricerca sul riso di Manila, nelle Filippine, custodisce nella propria ”banca” centrale varietà tradizionali e selvatiche. Ognuna ha un genoma quasi uguale all’indica, ma con minute variazioni in singoli geni detti alleli. Ogni allele sopravvissuto fino ad oggi ha una storia: è stato ”rodato” nel suo ambiente, unico per clima, altitudine o suolo, nell’arco di milioni di anni dalla selezione naturale, e per otto millenni dalla selezione operata dagli agricoltori. Il test del tempo superato garantisce che una data varietà ha capacità di adattarsi che possono tornare utili. Quindi gli entusiasti non vedono l’ora di identificare gli alleli giusti, e di mescolarci qualche gene non combaciante del mais, per dotare il riso della stessa stupenda efficienza energetica. I prudenti sono soddisfatti, ma in parte. Le mappe sono un primo passo verso un catalogo di tutte le proteine del riso. E aprono finalmente la prospettiva di capire come mai la pianta cattura e lega soltanto tre atomi di carbonio (prelevati dall’anidride carbonica dell’atmosfera), invece di quattro come il mais. E forse sistemeranno i grattacapi teorici di tutti i genetisti, qualunque sia il loro organismo prediletto: se i geni sono simili e le piante diverse (e non solo le piante: anche noi abbiamo geni in comune con il riso), da dove discende la diversità? Dai geni, dai fattori di trascrizione che fanno esprimere loro le proteine, dalla forma di queste, dalle interazioni che hanno tra loro e con il resto della cellula? Magari un genoma piccino come quello del riso, con le centomila varietà note in cui si esprime, si rivelerà un apriti Sesamo. I prudenti ci sperano, senza fretta. Ricordano che le prime informazioni sui geni del riso risalgono al 1991, a un progetto di ricerca giapponese finanziato con il Totip locale. del 2000, invece, il primo brogliaccio del japonica, ottenuto da ricercatori della multinazionale Monsanto e dell’università di Seattle e consegnato a un consorzio pubblico mondiale, l’International Rice Genome Sequencing Project. Siccome quest’ultimo avrà una mappa ben più completa entro dicembre, i prudenti fanno gli schizzinosi davanti ai due brogliacci pubblicati un mese fa: troppo incerta la localizzazione dei geni, per non parlare del loro numero che oscillerebbe tra 46.000 e 55.600 per i cinesi, e tra 32.000 e 50.000 per la Syngenta. Ai prudenti interessa comprare le piante, per loro quello del riso era un genoma facile. Dopotutto c’era da sequenziare solo 430 milioni di basi di DNA, nulla rispetto ai 3 miliardi del mais e ai 16 miliardi del grano. «Pensare che noi umani abbiamo tra 30 e 40 mila geni, meno del riso, e lo stesso numero di basi di DNA del mais», commentava Anna Salleh su un quotidiano scientifico on-line australiano. E veniamo ai sospettosi. Questi subissano di domande la stampa specializzata. Perché due mappe piene di buchi e oscillazioni, e perchè proprio ora? Perchè i ministeri della ricerca e dell’agricoltura americani, canadesi e inglesi, che nel 1997 avevano promesso di finanziarie i propri laboratori statali affinché partecipassero al consorzio mondiale, non hanno cacciato un soldo (Canada e Gran Bretagna) o ne hanno cacciati pochi e dopo due anni (Usa)? solo un caso se questi sono gli stessi Paesi che più legano le università alle industria, interpretano duramente le regole sui brevetti, procedono con rappresaglie se un Paese disperato infrange le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio? I sospettosi amano anche ricordare che la Syngenta è nota nel giro come ”Capitan Uncino”. Mentre una semplice consultazione del calendario può rivelare, avvertono, che all’Aja proprio a partire della metà di aprile ci sono stati due vertici: il primo sulla biodiversità e il secondo sul Protocollo di Cartagena che deve decidere le norme per la diffusione degli organismi geneticamente modificati. Inoltre, esattamente il 5 aprile, un grande settimanale, ”Nature”, tornava sul tema del mais messicano contaminato da una varietà transgenica della Novartis benché l’uso di quest’ultima fosse vietata dalla moratoria del 1998. Il direttore di ”Nature” riprendeva l’argomento sostenendo che l’articolo in cui David Quist e Ignacio Chapela dell’Università della California avevano rivelato l’accaduto nel novembre scorso era carente. Però allo stesso tempo pubblicava le precisazioni degli autori dopo averle sottoposti a vari esperti, e solo uno di loro le riteneva insufficienti. Mentre due giorni prima del vertice sul protocollo di Cartagena erano gli stessi laboratori statali del Messico a confermare i lavori Quist e Chapela. Infine: è una coincidenza se in questi stessi giorni, all’Aja, trattative discrete in alberghi di lusso decidevano l’ordine del giorno per il vertice sull’alimentazione convocato dalla Fao a Roma dal 10 al 13 giugno? Temo che abbiano ragione i sospettosi. Tra un mese a Roma si misureranno i progressi compiuti negli ultimi 5 anni. Allora il Primo mondo aveva promesso al Terzo di aiutarlo a combattere la denutrizione. La Fao è favorevole a farlo con gli Ogm, il governo americano pure e prevede sconti fiscali per le multinazionali che li esportano nei Paesi poveri. Sconti iscritti in bilancio sotto la voce ”aiuti umanitari”. Solo che, in Normandia per esempio, le coltivazioni transgeniche devono essere circondate da un’ampia fascia di terreno incolto. E in India, per fare un altro esempio, i campi di cotone transgenico vanno seminati al 20% con una varietà tradizionale. Sono le soluzioni di biosicurezza dette ”rifugio”: servono ad attirare i parassiti per evitare che diventino resistenti al gene inserito nelle piante modificate per combatterli. Chi non le adotta non ha diritto a risarcimenti in caso di guai e anzi i produttori possono chiedergli i danni. Se la Fao non cambierà parere le toccherà spiegare ai contadini poveri che sacrificare un 20% di semi buoni, e quindi del proprio campo, conviene. Sylvie Coyaud