Vittorio Zucconi La Repubblica, 20/05/2002, 20 maggio 2002
Il Padre Pio del ciclismo ha sconfitto il cancro ma non fa miracoli, La Repubblica, 20 maggio 2002 Washington
Il Padre Pio del ciclismo ha sconfitto il cancro ma non fa miracoli, La Repubblica, 20 maggio 2002 Washington. C’è un uomo solo, in corsa per regalare un miracolo. Da lui, nella sua casa santuario del Texas, arrivano a migliaia, a volte 20 mila pellegrini in un solo giorno, per bussare alla porta del santo della bicicletta, di colui che mamme disperate, bambini esangui, malati affranti, vogliono illudersi abbia scoperto tra i rapporti, le catene, il gran premio della Montagna, il Pordoi e l’Izoard, la scintilla del divino che guarisce. Nell’ora dell’agonia del ciclismo, che ovunque boccheggia intossicato dai veleni che fanno i tristi miracoli del doping, lui è l’ultimo angelo rimasto, il corridore che è andato più forte anche della malattia, Lance Armstrong, il Padre Pio delle pedivelle, il nuovo culto pagano di uno sport che ha perduto la fede. Racconta il quotidiano americano ”Usa Today” che la scena davanti alla villetta dove il più grande ciclista americano di tutti i tempi, l’unico non europeo che abbia saputo fare come Coppi, Bartali, Merckx, Anquetil, Indurain e meglio del cancro, è quella di un santuario di provincia, di una piccola Lourdes nel Texas. Processioni di mamme che stringono fagottelli, di carrozzelle, di uomini su stampelle, affollano la sua strada e l’hotel più vicino che sta facendo affari di platino, per vederlo, per incontrarlo, per toccarlo, per farsi autografare la maglietta replica delle sue infinite maglie gialle. «Credono che abbia facoltà miracolose, che abbia lasciato la Terra e abbia pedalato in cielo tra i santi» dice lui un po’ spaventato. «Ma tutto quello che posso dare a quella gente è la storia della mia vita e quindi un segno di solidarietà e di speranza». Quanto basta. La storia della sua vita è ormai da sei anni il tessuto con il quale si vestono le leggende epiche dello sport cucito alla vita, oltre i sospetti, le combine, i cagliostro che ormai infestano ogni sport nel quale scorra il danaro. Lance Armstrong ha 31 anni, texano d’origine vera nato nel 1971, ma secondo la medicina dovrebbe averne 25, l’età alla quale gli fu diagnosticato un tumore ai testicoli già metastatizzato ai polmoni e al cervello, diffuso ad altre parti del corpo. Soltanto sopravvivere, in quelle condizioni sarebbe stato - e la parola torna inesorabilmente - un miracolo, ma Armstrong ha fatto molto di più. clinicamente guarito, nel senso che ogni traccia del male è scomparsa. Ha ripreso la bicicletta. Si è ricordato di avere vinto a 13 anni l’Iron Kids Triathlon, un percorso di tortura per super atleti che devono essere nuotatori, ciclisti, podisti, di essere stato, poco prima della diagnosi, il numero nella graduatoria mondiale dei ciclisti, e ha vinto tre Tour de France in fila, nel ’99, 2000 e 2001 e non si vede chi possa batterlo nel prossimo, che comincerà il 6 luglio. Anche su di lui, come di fatto e magari ingiustamente su chiunque ormai pedali, giochi, corra, salti per soldi e, purtroppo, anche per diletto nella corruzione a cascata che dai professionisti scende ai dilettanti e ai giovani, sono scivolati sospetti di truci magie chimiche. Ma le accuse sono rotolate via come gocce d’acqua sul dorso di un’anatra, perché il ciclismo ha bisogno di miti, ma soprattutto perché milioni di malati hanno bisogno di speranza e vincere tre Tour de France in tre anni dopo una diagnosi e una terapia come quelle sono pure, potenti pillole di speranza. «Ogni notte quando metto a letto il mio bambino di 18 mesi malato, gli mormoro alle orecchie, dormi sereno, tesoro mio, un giorno vincerai il Tour del France» dice Kathy Greene, una delle madri in fila per una carezza del santo della pedivella. Naturalmente, il vero miracolo non è nella imposizione delle mani o nella maglietta benedetta dalla firma, è nel sentimento di quella madre, che il figlio malato non sia solo nella scalata al gran premio del male. in quello che i 400 mila acquirenti del libro scritto con Armstrong da una giornalista del Washington Post, Sally Jenkins, My journey back to life, il mio ritorno alla vita, chiamano ormai The Book, il libro, senza titolo né aggettivi, come si chiamano soltanto la Bibbia o il Corano. Nello scorso week end, per la ”corsa della Rose”, una manifestazione benefica con lui per raccogliere fondi alla ricerca, sono arrivate ad Austin nel Texas, persone da tutti gli Stati Uniti, dalla Francia, dal Giappone, dal Brasile, tutte agitando il ”Book”. «Vorrei poter fare qualcosa per loro» si difende il ciclista, «ma possono solo ascoltarle e donare parte dei miei guadagni alla ricerca». Sedici milioni di dollari, donati alla Fondazione. I fedeli, i pellegrini, gli amici, il popolo del ”Book” dicono che è troppo modesto, che i miracoli Saint Lance, come lo chiamano in Texas, li fa davvero, non con le ciarlatanerie dei predicatori TV da «guarigione contro offerta», ma con il suo esempio di feroce, inflessibile attaccamento alla vita. Si sposò nel 1998, dunque dopo la diagnosi e la chirurgia, con una donna non meno coraggiosa di lui, Kristen, che restò incinta del loro primo figlio, Luke (come Luca l’evangelista) grazie allo sperma che lui aveva donato prima dell’intervento, e poi delle due gemelle concepite con lo stesso metodo e nate nel 2001, Grace e Isabelle. Alla fine dello scorso anno, quando un campione finlandese di hockey nel campionato americano, Koivu, crollò sul ghiaccio vomitando sangue e fu diagnosticato con un cancro all’addome, Saint Lance gli telefonò, si parlarono per ore, si incontrarono. In marzo Koivu è tornato in squadra per i play off. Ha fatto dieci gol, più di ogni altro giocatore della Lega Hockey nelle finali. Ma il pellegrinaggio dei dolenti alla sua porta comincia a esigere un prezzo. «Arrivo alla sera moralmente affranto, dopo una giornata passata ad allenarmi e a incontrare gente con storie che mi straziano, non come ex paziente, ma come padre, ora che ho tre bambini. Non riesco a immaginare che cosa viva quella gente che mi porta i figli malati. Ascolto spesso una canzone di Eric Clapton, ”Tears in heaven”, lacrime in paradiso, che lui compose quando gli morì un figlio in un incidente. Guardo il mio Luke mentre ascolto e penso mio dio che farei io, al posto di Clapton, il proprio male è nulla davanti alla sofferenza dei figli». Quando racconta queste cose ai tifosi della vita che lo ascoltano, la sua statura cresce e cresce, nella commovente e ovvia consolazione di scoprire nella ”celebrity”, nel dio dello sport, il tratto dell’umanità più comune. Armstrong non fa miracoli, anche se non è il caso di dirlo ai pellegrini in cammino per il Texas, alle gente che per il quarto anno lo assedierà negli alberghi di tappa, lungo i 3.200 chilometri del Tour de France. Armstrong è un miracolo sul sellino, perché è la prova vivente se può andare bene a lui, può andare bene a tutti. Ora, è condannato a vincere ancora, per alimentare la sua Fondazione di ricerca, per rispondere all’onore di essere stato nominato da Bush nella commissione nazionale per la lotta al cancro, per mantenere viva la speranza del miracolo, nelle madri che bisbigliano ai figli malati «un giorno vincerai come lui». «La accetto questa responsabilità» piega la testa il piccolo santo della maglia gialla, l’ultimo corridore che possa salvare uno sport dalla vergogna e mettere a dormire sereno un bambino malato. Vittorio Zucconi