Stefano Lorenzetto il Giornale, 19/05/2002, 19 maggio 2002
Emilio Riva ha acciaierie in tutto il mondo, ma aspetta il 27 del mese come i suoi operai, il Giornale, domenica 19 maggio 2002 Cominciò come rottamaio
Emilio Riva ha acciaierie in tutto il mondo, ma aspetta il 27 del mese come i suoi operai, il Giornale, domenica 19 maggio 2002 Cominciò come rottamaio. Adesso dicono che Emilio Riva, l’ultimo padrone delle ferriere, guadagni poco più di Berlusconi e poco meno di Agnelli. O viceversa. Insomma, male che vada, dovrebbe essere il terzo contribuente italiano. Leggende. Come ciascuno dei suoi 25.781 dipendenti, il 27 di ogni mese il presidente continua a ricevere dalla segretaria la busta paga: è quello il suo unico reddito. Riva è stipendiato dall’omonima holding che raggruppa 42 stabilimenti e 31 società commerciali sparse tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Spagna, Inghilterra, Olanda, Lussemburgo, Grecia, Tunisia, Stati Uniti e Canada. Al lordo, fanno 700 milioni (di lire) l’anno. Bruscolini, credetemi. Giorgio Armani, tanto per dire, percepisce 458 volte più di lui, Cesare Romiti 218, Marco Tronchetti Provera 52. Persino Roberto Baggio, nel suo piccolo, piglia 13 volte tanto. Eppure le acciaierie Riva fatturano ogni anno 9.500 miliardi delle vecchie lire. Nel 2000 hanno dato un utile di 554 miliardi, che l’ultimo padrone delle ferriere ha reimpiegato interamente nelle proprio aziende, secondo tradizione. «Mai pagato dividendi. Un grande imprenditore deve avere solo debiti: sono la prova che investe. Se qualcuno mi dà del capitalista o del finanziere, vado su di giri. Anzi, sa che cosa le dico? I comunisti li abbiamo creati noi industriali. Eh sì, perché non puoi mettere in mano un milione e due al mese al tuo operaio e poi sperperare in una sera 100 milioni al tavolo da gioco. L’è minga giust. Io mi sono sempre accontentato di quello che avevo. Mai entrato in un casinò. Se perdessi 10 milioni alla roulette, piangerei per una settimana. Se li vincessi, non mi cambierebbe niente. Meglio una partita a scopa con i amis». Considerandosi né più né meno che un lavoratore dipendente, sia pure da se stesso, il milanese Emilio Riva, ragiunatt insignito della laurea ad honorem in ingegneria meccanica dal Politecnico della sua città, ha un sacro rispetto per il 27, giorno di paga. «Mica per altro: ci faccio conto anch’io. Piuttosto di mancare di parola con un mio operaio, mi vendo il letto. Il 27 cade di sabato o di domenica? Lo stipendio va dato il venerdì. Una banca di Novi Ligure una volta se n’è dimenticata. Ha pagato il personale di una mia acciaieria il lunedì dopo. Le ho chiuso il conto su due piedi». Questo non significa che il padrone delle ferriere non pretenda altrettanto scrupolo dai dipendenti. A sentire i suoi detrattori, Riva ha billette e vergelle invece delle ossa e un tondo di cemento armato al posto del cuore. Quando ha rilevato l’Ilva di Taranto, ex Italsider, la più grande acciaieria d’Europa, l’hanno accusato d’aver confinato 70 impiegati «troppo sindacalizzati o scomodi» in una palazzina cadente, «in cui subivano un trattamento teso ad annullare la loro dignità professionale e umana». Il giudice unico del tribunale, Genantonio Chiarelli, ha ritenuto che Riva volesse costringerli a dimettersi. Così, nel dicembre scorso, l’ha condannato a due anni e tre mesi di reclusione per tentata violenza privata. «Ma sul banco degli imputati non è riuscito a mandarmici. Gli ho detto: ho un sacro rispetto della magistratura, questo è il mio promemoria, faccia come meglio crede». Nel promemoria che cosa c’era scritto? «La verità, per la quale mi batterò fino in Cassazione. Erano posti di lavoro occupati da persone incaricate di tenere i contatti con l’Iri, con la Finsider, col ministero del Tesoro. Nel momento in cui l’Ilva passava in mani private, cessava la loro funzione. Fossero rimasti in tre, non potevano fare la scopa. Ma dai quattro in su m’avrebbero organizzato anche il torneo di briscola. Allora gli ho detto: signori, io vi lascio il vostro ottavo livello, voi in cambio andate giù in fabbrica e controllate almeno la produzione. Li mandavo minga con la mazza e il badile, eh. Li mettevo al computer in camice bianco. Molti hanno accettato. Una settantina no». E lei che cos’ha fatto? «Siccome non mi servite, state pure a casa, li ho esortati, così almeno risparmiate la benzina dell’auto. A fine mese vi mando a casa il vostro stipendio, intero. Niente, non hanno accettato nemmeno questo. Perciò li ho spostati nella palazzina Laf, dove c’erano scrivanie e telefoni. Per due giorni ho lasciato l’abilitazione alle chiamate esterne. Ma poi mi sono accorto che telefonavano per i fatti loro in Australia e perciò ho fatto installare due bei telefoni a scheda». Avrebbe fatto di più: dei lavori ”di aggiustamento” del decrepito edificio, in fretta e furia, quando ha saputo che i magistrati inquirenti sarebbero venuti a ispezionarlo. «Pensi che astuzia: hanno rotto di proposito maniglie e vetri, poi hanno telefonato al direttore generale lamentandosi che faceva freddo, e lui, ingenuo, gli ha mandato subito una squadra di falegnami per le riparazioni. Sono anche venuti a riferirmi che un impiegato aveva tentato due volte il suicidio per colpa mia». Addirittura. «Mi parlavano di mobbing minga mobbing. Sentite qua, gli ho detto, mandatelo su da me che gli insegno io come fare: prende una bella pietra e va sul molo di Taranto... Ma le pare che uno può sbagliare due volte persino ad ammazzarsi? Per farla breve, alla fine si sono licenziati solo tre irriducibili e tutti gli altri hanno accettato di lavorare». Lei da quanti anni lavora? «Dal ’41. Farò 76 anni il 22 giugno e ancora non mi lasciano andare in pensione. Almeno mio fratello Adriano c’è riuscito. Adesso fa il socio e basta. Beato lui». Mi parli di suo padre. «Si chiamava Angelo, era nato a Cascina Villalanda, all’Ortica. Lavorava nei trasporti, ma più che altro era un poeta. Come mio nonno fittàvol, che aveva importato le prime 130 mucche da latte dall’Olanda. E come mio zio, che era il mènalat e sposò una Invernizzi. Nel ’37 papà mise giù in Etiopia la linea Massaua-Gimma. Tre mesi per arrivare da una città all’altra. Ci ho impiegato io cinque giorni con la Land Rover nel ’62. Mi aveva chiamato l’imperatore Hailé Selassié». Per quale motivo il Negus aveva bisogno di lei? «Stava costruendo un’acciaieria ad Addis Abeba. Voleva un parere. Maestà, gli dissi, con tutto il rispetto ma quell’affare lì non fonderà mai neanche un bullone. ”Che ci vuole per farla funzionare?”, chiese. Carta bianca, risposi». Cioè? «Si fa a modo mio. Fuori dai piedi i burocrati. Nessuno ci deve mettere il naso. Risultato: prima colata a gennaio ’63. Un record mondiale. Facevamo dai chiodi alle reti del letto. Poi è venuto Menghistu, il leninista, e ha rovinato tutto». Come ha cominciato? «Da Colombo, un magazzino di ferro alla Bovisa. Il mio primo lavoro è stato aprire le buste della corrispondenza e rivoltarle: il retro si usava per scriverci sopra i conti. Il primo stipendio fu di 200 lire. Il mese dopo ne prendevo già 300. Nel ’52 avevo il 40 per cento della ditta. Volevo il 51. Il proprietario non me lo diede e così me ne andai». Per fare che cosa? «Era da poco finita la guerra. C’erano da recuperare tutti i residuati bellici. Cominciai a comprare i lotti d’asta nei campi Arar: ferrovie bombardate, demolizioni navali, veicoli militari. Li vendevo ai bresciani della Valsabbia e della Valcamonica, che da generazioni facevano badili e picconi. L’ho dato io il ferro per le fondazioni del Pirellone». Quando iniziò a fondere in proprio? «Nel ’57 misi in funzione il primo forno elettrico a Caronno Pertusella. Sei colate al giorno. Era già un bell’andare. Bisognava tirare fuori i lingotti con la mazza. Oggi di colate ne facciamo 28-30, cioè 80 tonnellate l’ora». Incredibile. E come fa? «Con la colata continua. Fu un gioco d’azzardo. L’ingegner Enzo Colombo ci mise il progetto; l’ingegner Luigi Danieli di Udine il brevetto; io l’acciaio. Dissi loro: proviamo, tremila tonnellate, non un chilo di più. Era il ’64. Scegliemmo il 2 giugno, festa della Repubblica, perché l’acciaieria era chiusa: avevamo paura che saltasse tutto per aria. Invece andò bene». Quanto acciaio produce in un anno? «Quindici milioni e mezzo di tonnellate. Metà si ottiene dal carbon fossile e metà dal proler, un macinato di auto, elettrodomestici, mobili metallici, scarti». E a chi lo dà il suo acciaio? «Farei prima a dirle a chi non lo do. La maggior parte delle carrozzerie Fiat sono fatte con lamiere Riva. Serviamo anche Bmw, Mercedes, Renault, Ford. Siamo uno dei quattro fornitori mondiali di tubi per gasdotti e oleodotti e gli unici a produrre cemento armato in Francia. Col nostro acciaio si fanno reti elettrosaldate per l’edilizia, vagoni ferroviari, binari. Il ponte fra Danimarca e Svezia è roba nostra». Mi ricorda Carlo V, sul cui regno non tramontava mai il sole. «Non esageriamo. Davanti ne ho cinque: la lussemburghese Arcelor, la coreana Posco, la giapponese Nippon Steel, l’inglese Corus e l’indiana Ispat». Di certi uomini si dice che hanno nervi d’acciaio. Si nasce con i nervi d’acciaio o bisogna farseli? «Non lo so. Io non li ho. Però di notte dormo. Può esserci in ballo la grana più grossa di questo mondo, appoggio la testa sul cuscino e parto. Non capisco chi sta sveglio. La notte è una cattiva consigliera: ti fa vedere tutto nero». Dopo aver abbandonato la siderurgia, Giorgio Falck sospirò: «Eravamo un impero industriale, ora siamo solo una famiglia ricca». Mai temuto di dover dire lo stesso un brutto giorno? «I Falck sono due cugini. I Riva sono due fratelli». E aggiunse: «L’acciaio è una cosa strana. Magari si perde per due anni ma poi, quando si guadagna, si recupera il decuplo di quel che s’è perso». così? «Io non ho mai perso. Certo, molti anni m’è capitato di far pari. Anche nel 2001, tanto per non andare distanti. Bisogna imitare le formiche e mettere da parte nei periodi buoni. In 48 anni non abbiamo mai staccato una cedola. All’Ilva è voluto rimanere dentro, per ragioni affettive, Nicola Amenduni. pugliese, gli sembra così di difendere la sua terra. Non guadagna una lira. Nemmeno il gettone di presenza, perché da noi i consiglieri d’amministrazione non lo ricevono». Mi mostra quanti soldi ha in tasca in questo momento? «Vuol vedere i danée? Oh bella...». (Estrae dalla tasca un fermabanconote d’argento e conta: 545 euro). «I 500 euro li ho prelevati sabato scorso. Che giorno è oggi? Giovedì? Sono a posto anche per la prossima settimana». Non potrebbe aumentarsi lo stipendio? «Bravo! Così mi tocca aumentarlo in proporzione a tutti gli altri. E poi lussi da mantenermi non ne ho, a parte le spese per abbellire il giardino della mia casa tra Varese e Como». C’è stato un momento della sua vita in cui ha detto a se stesso: «Ecco, sono ricco»? «Uno che lavora non è mai ricco». Chi è un padrone delle ferriere? «Ghe n’è pù. Noi li chiamavamo i baroni dell’acciaio. Erano i Falck, i Redaelli, i Cobianchi, i Ceretti, i Galtarossa... Siamo stati noi parvenu a insegnargli a esportarlo nel mondo». Come hanno fatto i Falck e i Galtarossa a finir male? «Erano appassionati di grandi organigrammi. Invece la siderurgia va fatta con poca burocrazia. Nel settembre 2000 abbiamo comprato due stabilimenti in Francia, quotati in Borsa. Perdevano. Siamo andati a spulciare: uffici di rappresentanza da tutte le parti, presidente, vicepresidente, amministratore delegato, direttore generale, dieci vicedirettori, assistenti minga assistenti... Non è tanto quello che si fanno pagare: è quello che spendono in giro per il mondo. Uno di questi mi fa: ”Sa, io sono un grande manager, non intendo prendere ordini da suo figlio Daniele, un ragazzino di 26 anni”. Gli ho risposto: ha ragione, ma siccome mio figlio non posso licenziarlo, vada via lei». I suoi figli lavorano tutti alla Riva acciaio? «Solo i quattro maschi. Delle aziende familiari la mia nonna diceva: ”Vun le fa, el secund ie cunsèrva, el terzo ie desfa”. Se non è alla terza, alla quarta generazione si disfano. Son qua che aspetto al varco il primo nipote... Si chiama Emilio, come me. Ha 22 anni. Studia economia e commercio in Inghilterra». Perché la terza o la quarta generazione disfa? «Hanno la pancia piena. Io andavo alla Scala con mia moglie e all’una di notte, tornando a casa, mi fermavo a Caronno, mi levavo la giacca e controllavo le colate. Ancor oggi per gli appunti uso il retro della rassegna stampa quotidiana. Giro nella nostra sede e vedo segretarie che gettano nel cestino montagne di fogli con sopra appena due righe di testo. Alla sera spengo la luce dell’ufficio. A Taranto le luci sono accese 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno». Ma lei si sente un padrone delle ferriere sì o no? «Neanche del cane. Gh’hoo minga de can. Odio quella parola: padrone. Non mi sono mai permesso di appoggiare una mano sulla spalla di un mio dipendente». Per campare decorosamente non le sarebbe bastata una sola acciaieria? Che cosa l’ha spinta a costruire un impero? «Nel ’71 ogni volta promettevo a mia moglie Rosanna che mi sarei fermato. Questa è l’ultima azienda che compro, le dicevo. Poi lei è morta... diventato anche un modo per riempire le giornate. Alla mia seconda moglie, Giovanna, ormai non prometto più nulla. L’acciaio liquido ti soggioga. Vedi questo forno che si capovolge ed escono 330 tonnellate di liquido a 1.650 gradi. Sembra acqua rossa. Ti brucia un po’ il viso, ma ti prende. A volte vengono i banchieri a vedere le colate. Ci lasciano il cuore». in buoni rapporti con le banche? «Mi danno credito. Nel vero senso della parola. Le banche vendono danée. Se non me li dà una banca, me li dà un’altra. Ma non sono un gran cliente. Pago da 0,10 a 0,12 centesimi di interesse sopra il tasso ufficiale. Oltre non vado. Nel ’95 mi concessero 800 miliardi extra fido per comprare l’Ilva senza metterci sopra neppure un’ipoteca. Non ho mai varcato il portone di Mediobanca: se devi consegnare le azioni in garanzia, significa che non sei più proprietario». Che santi in paradiso ha avuto, parlo di politici, per convincere lo Stato a cedere l’Ilva proprio a lei? «Non ne ho e non voglio averne. Alla girata delle azioni l’Iri mi chiese: ”Come ci paga?”. Pronta cassa, risposi io. E tirai fuori 100 miliardi in più del miglior offerente. Mi davano tutti per spacciato. Sta’ vòlta Riva el fa la scarligada, fa lo scivolone, spettegolavano. Sono ancora in piedi». Senza i quattro figli che lavorano al suo fianco, sarebbe riuscito ad arrivare dov’è arrivato? «No, e nemmeno senza i due nipoti, figli di mio fratello. Mi sarei fermato trent’anni fa». Qualche volta non prova il rimorso d’avergli ”sequestrato” la vita? «Il primogenito, Fabio, appena diplomato ragioniere mi disse: ”Papà, andrei alla Bocconi”. D’accordo, alla Bocconi il piano di studi prevede otto esami l’anno. ”E se ne do cinque?”, obiettò. Ti licenzio. ”A queste condizioni preferisco venir a lavorare con te”. Col secondo stesso discorso: ha preferito anche lui le acciaierie. Col terzo e col quarto non c’è stato bisogno di dire nulla. Invece con le due femmine sono stato di manica larga. Hanno potuto laurearsi con calma». Come si spiega che imprenditori molto meno ricchi di lei siano sempre sui giornali mentre Riva non si vede mai? «Saranno fotogenici». vero che il centralino della sua sede milanese di viale Certosa fino a qualche tempo rispondeva: ”Trenta settecento, buongiorno”, cioè il numero di telefono, 30700? «Vero. Avevamo tante di quelle società... Quale citare per prima?». Perché ha fama di duro con i sindacati? «Duro? A Genova dicono che con i sindacati sono culo e camicia. Infatti io non voglio chiudere l’acciaieria di Cornigliano e loro nemmeno». Ma Cornigliano inquina o no? «Dal 7 febbraio abbiamo fermato definitivamente le cokerie. Ergo, non inquina più. Nel ’96 avevo proposto a sindacati e autorità: interessa un piano di risanamento ecologico? No, no, risposero, noi vogliamo smantellare, però lei deve tenersi lo stesso tremila operai. Firmai un accordo con quattro ministri e le autorità locali: dopo tre anni se lo sono rimangiato. Ora sono pronto a bloccare anche l’altoforno e ad andarmene. Basta che qualcuno mi indennizzi». Non la facevo così sensibile all’ambiente. «Contro l’inquinamento all’Ilva di Taranto abbiamo già speso 500 miliardi di lire. E ne abbiamo messi in preventivo altri 400, più o meno. Veda lei». Susanna Camusso, all’epoca segretaria nazionale della Fiom-Cgil, dichiarò: «A imprenditori come Riva non importa nulla di politica o di questioni di principio. La loro unica ideologia è quella proprietaria. E cioè il padrone può usare liberamente gli strumenti a sua disposizione. Tra cui si contano, ovviamente, anche i lavoratori». «Era tanto simpatica. Me l’hanno fatta fuori. Ma dov’è finita? Una bella tusa così cattiva... Anche quell’altra là, la segretaria dei Ds di Genova, come si chiamava? Ah sì, la Roberta Pinotti. Bella tusa e cattiva anche lei». Non mi ha risposto. «Se non ci fosse il sindacato, cercherei di fondarlo io. Ne ho bisogno. Altrimenti come riuscirei a trovare un accordo con 25mila e passa dipendenti? Se il sindacato mi chiede un aumento, cerco di darglielo. Detesto il sindacato che fa politica e proclama scioperi demagogici». Averne di sindacati così in Italia... «Infatti sto parlando dell’Ig Metall tedesco, il più potente sindacato d’Europa, 2,8 milioni di iscritti. All’inizio ci siamo insultati e presi per il collo. Un mese fa, per il decimo anniversario della Riva a Hennigsdorf, in prima fila a festeggiarmi c’era Peter Schultz, il boss dei metalmeccanici». Che ci fa la Riva a Hennigsdorf? «Ho rilevato due acciaierie nell’ex Ddr. Al mio arrivo trovai le squadre di pronto intervento dell’Armata rossa che erano preposte a difendere le fabbriche da un’invasione occidentale. Ci misero quasi due anni ad andarsene: non c’erano case a sufficienza, in Russia, per i 400mila soldati delle divisioni corazzate acquartierate a Berlino. All’inizio la moglie del mio direttore faceva la colf in casa del comandante russo: alla fine gli portava da mangiare. I militari sovietici penetravano di notte negli spogliatoi dei nostri stabilimenti, sfondavano gli armadietti, indossavano gli abiti civili degli operai e scappavano lasciando lì le divise». Progressi del comunismo. «I dipendenti avevano diritto alla razione quotidiana di pane: gliel’ho tolta quando ho visto che la davano alle oche. Poi c’era il pullman che andava a prenderli a casa: tolto anche quello. Usate la bicicletta e vedrete quanta strada farete nella vita, gli ho spiegato. Dieci anni dopo non ce n’è uno che non abbia la sua auto. Rubavano i rubinetti delle docce: bene, resterete sporchi. Dopo un po’ sono venuti a piangere: d’accordo, vi rimetto i rubinetti, ma vi trattengo la spesa dallo stipendio. I bagni adesso sono perfetti. Le pare che in Italia si potrebbe fare altrettanto?». riuscito a capire per quale motivo a un certo punto le aziende si ”sovietizzano”, perdono slancio, diventano spurghi di rancori interpersonali, arrivano a deprimere chi ci lavora? «Colpa del capo. Mette gli uni contro gli altri. Io non parlo mai male dei miei collaboratori. Al massimo li licenzio». Mi risulta che lei faccia parte d’un ristretto club di imprenditori che si autotassano per pagare i viaggi del Papa? «Di questo non parlo». Però il Vangelo ammonisce: « più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». «Lo penso anch’io. Ma siccome non sono ricco...». Stefano Lorenzetto