Marco D’Eramo Alias, 25/05/2002, 25 maggio 2002
In America i Mondiali sembrano dei western tedeschi, Alias, sabato 25 maggio 2002 Dal 31 maggio, e per tutto un mese, la maggioranza della razza umana si metterà a part-time per assistere ai mondiali di calcio
In America i Mondiali sembrano dei western tedeschi, Alias, sabato 25 maggio 2002 Dal 31 maggio, e per tutto un mese, la maggioranza della razza umana si metterà a part-time per assistere ai mondiali di calcio. A causa del fuso orario, le partite giocate alle 8 di sera in Corea e in Giappone saranno trasmesse a mezzogiorno in Italia, alle 8 del mattino in Brasile, alle 5 in Messico. Ancora peggio per quelle che si giocheranno alle 15.00 e che al Cairo saranno viste alle 8 del mattino, in Inghilterra alle 5, e in Argentina alle due di notte. Sarà una sorta di ramadan mondiale: nel mese del digiuno islamico infatti, poiché è vietato mangiare e bere mentre c’è la luce del sole (da quando e finché e possibile distinguere un crine di cammello bianco da uno nero, dice il Corano), tutta la vita, la convivialità e la festosità è spostata di notte, sicché il giorno si trascina lento, assonnato. I misuratori economici riflettono fedelmente la sonnolenza e i porti riducono del 40-50 per cento la propria attività. Nello stesso modo, in Italia, tra padroni e dipendenti, le trattative vertono già non sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma sulla pausa-partita durante i campionati. E non sarà solo l’Italia a soggiacere a una febbrile indolenza, punteggiata da aspri dibattiti su formazioni e arbitraggi, ma dalle Ande all’Hymalaya, dall’Orinoco al Fiume Giallo, la vita quotidiana ondeggerà al ritmo delle telecronache. Il calcio si rivelerà in tutta la sua potenza come ciò che è - e che pure facciamo finta di non riconoscere - e cioè come il linguaggio sacro della modernità televisiva. Nell’inverno 1997-98, quando la loro nazionale conquistò l’accesso alla fase finale dei campionati del mondo di Parigi, le tifose iraniane sfondarono gli schieramenti di polizia e infransero un divieto assoluto, nell’Iran khomeinista, quello della presenza femminile a uno stadio sportivo. A dimostrazione che il calcio e la tv sono più potenti di Allah, di Geova, di Dio e di qualunque fondamentalismo. Gli integralisti di Al Qaida possono abbattere i simboli del capitalismo, ma non oscurare le prodezze in area di rigore. La potenza dirompente del calcio si esercita in Africa, in Asia, in America latina, in Europa, in Oceania. In tutti questi continenti nessun potere politico, per quanto assoluto e dittatoriale, si potrebbe permettere di oscurare le partite finali dei mondiali di calcio, pena una sommossa popolare: Leviatano si ferma davanti alla Zona Cesarini. C’è un solo paese che resterà indifferente a questo evento, gli Stati Uniti, la sede dell’impero mondiale, e quest’anomalia è stupefacente a più di un titolo. Lo sport in generale, e il calcio in particolare, sono fenomeni specifici della società delle comunicazioni di massa, non solo perché olimpiadi, giri ciclistici, club di calcio nascono tutti a cavallo tra Ottocento e Novecento mentre s’inventa il telefono, quando il telegrafo diffonde le scommesse, ma perché l’esplosione dello sport come fenomeno geo-politico avviene con la radio (Olimpiadi di Berlino): gli stessi mondiali di calcio sono coetanei della radio. E il potere imperiale Usa è l’unico che si è affermato con la radio - e che ha saputo sfruttare le comunicazioni di massa. Con i loro film, la loro tv, le loro canzoni, gli Usa ci hanno fatto diventare tutti americani nel nostro immaginario, anche chi non sa una parola d’inglese. In qualche modo, i sentimenti Usa sono gli unici che toccano i cuori del mondo, e lo si è visto l’11 settembre, quando 3.000 morti americani hanno colpito il pianeta più di quanto avessero commosso le centinaia, i milioni di esseri umani massacrati negli anni recenti (vedi Rwanda). In tutto il pianeta quasi ogni passione parla un solo linguaggio, quello dei mass-media Usa. Tranne una passione, quella del calcio. Curiosamente, proprio la potenza imperiale che ha ottenuto una vittoria stracciante in tutto l’ambito simbolico, rimane estranea, emarginata dalla più grande liturgia sportiva planetaria. I suoi film e le sue musiche hanno colonizzato il mondo. I suoi sport stentano molto di più. Il basket viene praticato, ma non riesce a sfondare, a causa della smisurata altezza che richiede ai giocatori (e anche perché basta vedere gli ultimi tre minuti). Il football americano si scontra con un’indifferenza mondiale quasi totale. Il baseball al di fuori dei Caraibi (il ”cortile di casa Usa”) è ancora un’attività semiclandestina, surclassata persino dal cricket negli ex possedimenti inglesi. Ci si chiede come mai tutti i poteri imperiali esportino le proprie passioni sportive (basti pensare al polo in India, al rugby in Sudafrica e in Nuova Zelanda) e invece non ci sono riusciti gli Usa che pure sono stati capaci di diffondere McDonalds, Coca-Cola e gli scomodissimi berretti da baseball, ma non il baseball. Certo, la squadra nazionale Usa partecipa ai campionati, ma con poca gloria, si suppone, e con poco seguito. Il punto è che non contano tanto i 22 giocatori in campo, quanto la rete di passioni che cortocircuita decine di milioni di tifosi. Ora, a me è capitato di assistere agli ultimi mondiali degli Stati Uniti. Ero a Chicago nel giugno-luglio 1994 quando i campionati si giocavano negli Usa; ed ero a New York nell’estate 1998 per i campionati di Parigi: la finale Francia-Brasile l’ho vista in un affollato pub della vezzosa cittadina di Burlington, sulle rive del Lake Champlain, al confine tra lo stato di New York e il Canada. All’inizio andavo nei pub irlandesi, dove le partite venivano trasmesse in americano. Se c’era un pubblico europeo, andava pure. Ma se il pubblico era americano, veniva da piangere perché non c’era nessuna partecipazione in sala e i telecronisti passavano il tempo a spiegare cosa è un fuorigioco, una rimessa laterale, un calcio di rigore. Ho provato la stessa sensazione di estraneamento che mi colpì a 12 anni, in Germania, a Monaco di Baviera quando per la prima volta vidi un film western doppiato in tedesco. I pistoleri gridavano rauchi: «Komm ’raus!» «Gib mir deine Pistole!!». Certo, in teoria non era più strano del cow-boy che parlava in italiano nei film della mia infanzia. Ma mentre a me italiano, in italiano mi sembrava naturale, in tedesco mi si rivelava l’estraneità tra la scena e la lingua. Così avviene per il soccer: ascoltare la telecronaca di una partita da un cronista americano è come vedere un western in tedesco. Allora ho cominciato ad andare nei bar ispanici dove dal video esplodeva il frenetico, ma così rassicurante, familiare «Goooooool!!!». Olivastri e coi baffetti, i volti intorno riflettevano un’espressione di intensa gioia (o straziante dolore), sotto i berretti da baseball alla rovescio. Forse anche in quest’istantanea si esercita l’egemonia americana: che i tifosi di uno sport come il soccer vestissero la classica divisa Usa: scarpe da ginnastica e cap da baseball. Ma potrà il solo impero globale sopportare ancora a lungo che l’unico sport globale gli sia estraneo e non gli appartenga? probabile che quest’asimmetria sia destinata a non durare, che sarà «corretta», non sappiamo come. Nel frattempo, nella caldissima estate sulle rive del lago Michingan, nei quartieri popolari dove cumuli di cocomeri si ammonticchiano in mezzo a strade dissestate, di fronte ai banchi dei pegni e alle rivendite di alcolici blindate come Fort Knox, nella quiete dell’alba, una voce tonante della rete tv La tremenda farà risuonare «Gooooool!» sotto i vertiginosi grattacieli di Chicago. Marco D’Eramo