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 2006  marzo 10 Venerdì calendario

Ora Al Qaida deve vedersela con i picciotti giapponesi, La Repubblica, domenica 2 giugno 2002 Tokyo

Ora Al Qaida deve vedersela con i picciotti giapponesi, La Repubblica, domenica 2 giugno 2002 Tokyo. Nel suo ufficio dentro il comando segreto da qualche parte a Tokyo - proibito per iscritto rivelarne l’indirizzo - il signor Sovrintendente Setsuo Hamura esibisce con pazienza esausta il tomo di 534 pagine plastificate che ogni giorno lui e i suoi uomini consultano come il vocabolario dell’Apocalisse. A come antrace, B come bomba, S come sarin, V come virus. «C’è tutto quello che siamo riusciti a immaginare - dice il Sovrintendente anti terrorismo che ha la pelle grigiastra del pesce marinato in ansia, caffé, insonnia e sigarette - ma è quello che non riusciamo a immaginare che ci angoscia. I terroristi hanno sempre più fantasia di noi, guardi l’11 settembre». E bravo il nostro Hamura-san, e chi se ne ricordava più, nel fuoco del dilemma storico tra Inzaghi e Montella, nell’angoscia straziante sulle condizioni di Zidane, che questo è il primo mondiale di calcio nel tempo del terrore globale? Che questo, con i suoi 3 milioni di spettatori arrivati da tutto il mondo e 3 miliardi di voyeurs televisivi, deve sembrare come la Scala, il Metropolitan e l’Operà messi assieme, per i tenori dei massacri all’ingrosso? «Tutto - ripete Hamura-san diteggiando come uno studente nervoso gli indici delle pagine bilingui che la polizia e i servizi giapponesi hanno preparato con gli americani e i coreani - abbiamo previsto tutto» e sa naturalmente che non è vero, perché nessuna polizia al mondo può mai prevedere tutto e questo Mondiale Sushi, affettato tra venti città, due nazioni, due mari, mille isole e penisole, non è un villaggio che si possa chiudere al mondo, come quelli che rinchiuderanno gli inutili vertici dei G8, dopo il tragico fiasco di Genova. «Abbiamo studiato quello che gli americani hanno fatto a Salt Lake City, per le Olimpiadi invernali, ma non possiamo trasformare due nazioni intere in un campo trincerato come loro fecero nello Utah». Gli americani, nelle loro basi lungo il 38° parallelo in Corea, a Okinawa e a Yokozuka in Giappone hanno messo sotto chiave 90 mila militari e i 55 mila famigliari, ma per loro è facile. Sono già soldati. Purtroppo, l’idea di affettare in mille piccole trance e dividere in due nazioni il Mondiale Sushi che era sembrata tanto brillante ai portafogli della Fifa e all’ingordigia di sindaci e governatori, si rivela, nell’anno primo del Ground Zero, disastrosamente peregrina perché costringe i difensori al massimo errore strategico, alla dispersione delle forze. Le due nazioni sono in assetto di guerra, e questa volta è la sorella minore, la Corea, ad essere avvantaggiata, vivendo da 50 anni in uno stato d’assedio quotidiano, con periodici addestramenti agli allarmi. Nel Giappone dove le uniformi e le armi sono ancora ricordi troppo dolorosi, le autorità devono invece affidarsi alla prevenzione, al lavoro di polizia e a molte preghiere agli dei Shinto. Il sovraintendente non ama discutere i dettagli del suo libro dell’Apocalisse, ma qualcosa è autorizzato a dire. La struttura della difesa civile anti terremoti è stata mobilitata in funzione anti terrorismo. Scorte immense di antibiotici e tutti i pochi vaccini disponibili sono accumulati in casematte di cemento. Ogni medico è in stato di mobilitazione, obbligato a non essere mai a più di mezz’ora da un centro di soccorso. Antidoti per i possibili agenti chimici, come il Sarin, il figlio della orribile Yprite, diffuso nel 1995 dentro il metrò dalla setta di Aum Shinriko, sono immagazzinati in tutti gli ospedali e nelle stazioni ferroviarie e non c’è purtropppo bisogno di molto addestramento per ricordare ai giapponesi che cosa sia un disastro nucleare. Ci sono ancora 150 mila persone con i ”cheloidi” sulla pelle, le cicatrici indelebili delle scottature atomiche. Sensori infrarossi e ultravioletti sono stati disposti lungo le due piste dell’aereoporto internazionale di Narita e tra coreani e giapponesi c’è il tacito accordo che qualunque velivolo non autorizzato sarà abbattuto. Hamura-san, il signor sovraintendente, si limita a guardarmi, quando glielo domando, ma tutto il sottobosco umano di Tokyo sa che centinaia di persone, soprattutto stranieri, sono stati messi sotto chiave, approfittando della legge che consente alla polizia giapponese di detenere una persona per 61 giorni senza spiegazioni. E di interrogarla con le brusche. E non oso neppure chiedergli conferma di quello che da giorni sento raccontare nei locali di Roppongi, di Akasaka, di Shinjuko: che un patto impronunciabile e tacito sia stato raggiunto fra autorità e mafia, perché la rete sotterranea e capillare della Yakuzà, la Cosa Nostra locale, collabori con le sue infinite orecchie a captare ogni vibrazione di pericolo. Si sente dire e ripetere che nelle settimane precedenti lo sbarco del primo massaggiatore o tifoso, i capi delle ”gumi”, le 12 grandi famiglie mafiose che controllano il Paese, si siano incontrate con personaggi della polizia, nel loro quartiere di Arakawa, la Tokyo Bassa dove nessun turista metterà mai piede, per decidere di dare una mano a tenere sotto controllo le città. Ogni ”oyabun”, ogni padrino, ogni ”kumi-cho”, i capi mandamento, ogni ”chimpira” come qui sono chiamati volgarmente - significa letteralmente i ”cazzetti” - i picciottelli da strada è mobilitato per difendere il Mondiale dal terrorismo e, visto come la Yakuzà riesce a prosperare indisturbata, forse è lei l’avversaria più dura per chi progetta qualche colpo. vero che esiste un patto di non aggressione con il crimine organizzato? «Non so di nessun patto ma ogni cittadino è pronto a collaborare contro il terrorismo». Corre voce che qualche complotto sia già stato sventato, come fu bloccato un attacco di terroristi algerini di Al Qaida dalla polizia belga, nei giorni del Mondiale di Francia. Il Giappone è avvantaggiato dalla omogenità etnica e un arabo, come un nigeriano o un finlandese, si nota subito. Ma anche la rigidezza dei controlli sugli stranieri - c’è da sempre l’obbligo delle impronte digitali per ogni residente forestiero - non garantisce che qualche matto indigeno possa collaborare a un attentato. Nel librone anti terrore c’è un capitolo per le misure di protezione sugli aerei, dove il personale di bordo è stato armato con pistole a scarica elettrica. Ma il pensiero che in ogni bar, in ogni bordello, in ogni locale, in ogni sala di pachinko, in ogni quartiere, vegli su di noi un ”chimpira”, rassicura più di un’assistente di volo con pistola a scossa. A questo siamo ridotti alla faccia della retorica dei politicanti sul bene e il male in lotta, a scegliere il male minore. Chiudiamo il libro dell’Apocalisse e torniamo a occuparci di cose serie. Domani Inzaghi ci sarà o no con Vieri? Vittorio Zucconi