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 2002  giugno 06 Giovedì calendario

Cristo fa l’arbitro in Giappone, Corriere della Sera, giovedì 6 giugno 2002 Sapporo. Un giorno Pietro Cristo scoprì di essere ingrassato

Cristo fa l’arbitro in Giappone, Corriere della Sera, giovedì 6 giugno 2002 Sapporo. Un giorno Pietro Cristo scoprì di essere ingrassato. Sua moglie Sachiko gli suggerì di fare un po’ di sport. Lui, ex mediano dei pulcini del Napoli («tutti i bambini di laggiù ci sono passati»), col sogno di diventare come Eraldo Pecci, pensò che per fare il calciatore era troppo tardi. «Ma non per fare l’arbitro» disse la signora Sachiko, che evidentemente aveva ricoperto il ruolo di stopper, mostrandogli un bando della neonata J-League, la lega calcistica giapponese: cercasi fischietti disperatamente. Pietro Cristo andò, fece l’esame, pratico (sportivo) e orale, e lo passò. «Più difficile quello orale. Mica per altro, erano tutte domande sulle regole del calcio, ma in giapponese. Accettarono dopo molti tentennamenti che mia moglie mi facesse da interprete». Pietro Cristo è l’unico arbitro italiano della J-League. Fischia in J-2, la serie B, e fa il quarto uomo in J-1, la serie A. «Perché qui gli stranieri sono ancora guardati con sospetto». Pietro non è venuto dall’Italia per fare l’arbitro. Suo nonno e suo padre facevano cammei. «Io no, li vendo solo». Pietro, 41 anni, da Torre del Greco («ma ho vissuto sempre a Napoli»), era arrivato per promuovere una visita all’azienda che li produce, ma ha conosciuto sua moglie, si è sposato e ora i tour li organizza di qui. Sua moglie, che non era ancora tale, gli aveva detto: «Se vieni in Giappone per me, non venire». Adesso lo segue alle partite e le filma. Vanno anche le sue bambine, Anna e Marion, che urlano ”papà” e qualche spettatore chiede: «Che numero ha tuo padre?». «Mio padre è quello vestito di nero». Immaginate l’identica situazione in Italia. «Ma ora qualche problema, minimo, comincia ad esserci. Più che altro, negli stadi dove il pubblico è più caldo, chiedono a mia moglie di scendere negli spogliatoi». Pietro arbitra anche la Lega universitaria, che qua, come spettatori, batte anche certe partite della serie A, e la Tokio League, la lega cittadina. «Qui amano Collina, lo considerano ’’il re’’, un grand’uomo, come Di Pietro». Pietro ha portato una delegazione di colleghi nipponici in pellegrinaggio a Roma per incontrare il nostro più famoso fischietto e i vertici dell’Aia. Hanno preso appunti da riempire un’enciclopedia. «Il guaio è che arbitrano col libro sotto il braccio. Elasticità niente». Senta, ma venire fino a qui per farsi urlare ”arbitro cornuto” non è paradossale? «Non usa. Piuttosto l’arbitro si prende in giro. Il fatto più curioso mi è successo al derby Yokohama-Kawasaki. Entrai in campo con i colleghi prima dell’incontro e mi sentii chiamare: ”Pietro, Pietro”. Mi voltai e c’era l’intera curva che mi mostrava il dito medio. Scoprii poi che avevano chiesto a un europeo che stava lì un gesto sintetico per colpire un arbitro italiano e quello gli aveva insegnato quel gesto. Lo avevano ripetuto senza sapere cosa significasse». Ora è arrivato il professionismo: gli arbitri più importanti raggiungono anche 2.200 euro a partita, Pietro arriva a 500. «L’importo non è fisso, varia a seconda dell’importanza dell’incontro». Qui, tra l’altro, a parte per i quattro o cinque migliori, non c’è differenza tra arbitro e guardalinee. Una volta arbitri, una volta sventoli. La differenza c’è quando viaggi: arbitro in prima classe sui treni e in business sugli aerei, guardalinee in seconda ed economica. Il vero guaio, però, è il ritiro prepartita. Altro che albergo a quattro stelle. Qua la quaterna soggiorna al ryokan, tipica pensione giapponese, dove si dorme sul tatami. Sveglia alle 6, talvolta alle 5 e, afa o neve, via ad allenarsi. «Lo chiamano ”morning training”, ci segue un istruttore. Ma questo lo sopporto, quello che non sopporto è il nattò, tradizionale colazione giapponese con fagioli, soia, mostarda, uovo fresco sbattuto sul riso bollente». La signora Sachiko ha visto giusto: Pietro è in forma. Chissà che ryokan e nattò non facciano bene anche ai nostri arbitri. Roberto Perrone