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 2002  giugno 07 Venerdì calendario

A Denver c’è un Danny De Vito che fa affari d’oro con gli spiccioli degli immigrati, Diario, 7 giugno 2002 In un quartiere di lusso alla periferia di Denver, nel Colorado, da circa un anno abita un signore di mezza età che somiglia vagamente a Danny De Vito e che - pur non avendo alcuna simpatia di sinistra - sarebbe pronto a scendere in piazza contro i leader xenofobi di tutto il mondo, da Haider a Le Pen, passando per il nostrano Umberto Bossi

A Denver c’è un Danny De Vito che fa affari d’oro con gli spiccioli degli immigrati, Diario, 7 giugno 2002 In un quartiere di lusso alla periferia di Denver, nel Colorado, da circa un anno abita un signore di mezza età che somiglia vagamente a Danny De Vito e che - pur non avendo alcuna simpatia di sinistra - sarebbe pronto a scendere in piazza contro i leader xenofobi di tutto il mondo, da Haider a Le Pen, passando per il nostrano Umberto Bossi. Questo signore si chiama Charles Fote, Charlie per gli amici e di mestiere fa il presidente mondiale della First Data Corporation, proprietaria della Western Union. La Westem Union è una gigantesca multinazionale che trasferisce soldi da un Paese all’altro del pianeta, trattenendo per sé una percentuale variabile. Ecco il motivo per cui il top manager Charlie è tanto interessato alla sorte degli immigrati: più ce ne sono meglio è, per i profitti dell’azienda e per il suo andamento in Borsa. Curiosi epifenomeni della globalizzazione: un titolo che vola a Wall Street e un’azienda che ricava sei miliardi e mezzo di dollari l’anno grazie alla montagna di minuscoli contributi versati dall’immenso popolo di gente migrante per fame dal Terzo al Primo mondo. Tex Willer. Gli italiani di nascita e dalla pelle bianca, probabilmente, sanno che esiste la Western Union solo per averne visto la pubblicità: qualche cartellone per strada e molte affissioni negli autobus o in metropolitana, cioè nei luoghi più frequentati dagli immigrati. In America, invece, la conoscono tutti e la collegano mentalmente all’epopea della frontiera. La Western Union infàtti è nata più di un secolo e mezzo fa a Rochester, nello Stato di New York, come società di telegrafi per collegare all’Ovest le grandi città della costa atlantica. Nel 1871 ha iniziato a trasferire denaro: era ancora periodo di pionieri, le popolazioni native non erano state rinchiuse del tutto in riserva, e chi viaggiava aveva paura a portare con sé il denaro contante. Quindi trovava comodissimo il trucchetto di farselo spedire con un telegramma. Ecco perché il nome della Western Union appare, ogni tanto, anche nei film di cowboy e nelle storie a fumetti di Tex Willer. Dopo il grande merger (la fusione del 1994), la Western Union-First Data Corporation è diventata un colosso ad azionariato diffuso con 124 mila punti vendita che svolgono ogni anno 75 milioni di operazioni e spediscono l’equivalente di 25 miliardi di dollari. Possiede cinque satelliti in orbita, opera su 191 Paesi, copre i tre quarti del territorio del pianeta, serve 396 milioni di clienti l’anno, ha sul libro paga 29 mila dipendenti fissi e dichiara un ritmo di crescita del 30 per cento. Dimensioni spaventevoli, dunque, che tuttavia trovano poco spazio nei mass media - almeno quelli europei - perché invisibili agli occhi dei più sono i suoi clienti, quasi tutti immigrati dal Sud del mondo. Eppure le azioni della Fdc sono considerate tra le più solide del mercato americano: anche l’ultima assemblea degli azionisti, l’8 maggio scorso, ha approvato un bilancio in attivo, strappando un sorriso benevolo al superboss che somiglia a Danny De Vito. Da noi la Western Union è arrivata nel 1994: una colonizzazione tardiva, dunque, o perlomeno successiva a quelle di altre catene più famose e di diverso genere, come McDonald’s e Ikea. Ma in meno di otto anni la multinazionale di Denver è passata in Italia da zero a oltre 5 mila punti vendita: soprattutto phone center, cyber bar, tabaccherie, agenzie di viaggio e alcuni supermarket. Ci sono anche banche, naturalmente, ma l’idea di fondo è avvicinare una clientela che con gli istituti di credito ha poca dimestichezza, sicché la corporation punta di più sui canali alternativi. Per questo, per esempio, uno dei principali agenti italiani della Western Union, la Finint, sta provando a invadere la rete delle totoricevitorie: tra una schedina e una puntata al Superenalotto, si possono mandare i soldi a casa 12 ore al giorno, fino alle dieci di sera. Un altro rappresentante Western Union, la Angelo Costa, ha risposto rivolgendosi ai distributori di benzina e ha stretto un accordo con l’Agip. Risultato: da un anno l’Italia è balzata al secondo posto (dopo gli Stati Uniti) per le rimesse di denaro verso l’estero. In pratica, per l’azienda di Charlie Fote il nostro paese è «il primo mercato non domestico del mondo». Ma oltre che dalle uova d’oro, siamo anche una gallina in ottima salute e in rapida crescita: nel 2001 il mercato complessivo dall’Italia è raddoppiato rispetto all’anno precedente e alla fine del 2002 si prevede che faccia registrare un ulteriore più 70 per cento. Posti a rischio. A spartirsi la torta delle rimesse, come si diceva, non sono solo gli azionisti della Fdc ma anche i vari rappresentanti e sottorappresentanti italiani. Per esempio, una parte della commissione su ogni passaggio di denaro finisce nelle tasche di un ragazzo romano di trent’anni che attorno alla Western Union ha cucito la sua fortuna. Si chiama Francesco Costa e nel 1995 ha preso in mano la società di famiglia la Angelo Costa (che aveva diverse partecipazioni ma nessun core business), dedicandola quasi completamente al trasferimento di valuta per conto della multinazionale Usa. Oggi ha più di 300 dipendenti, ma molti di questi, specie tra i giovani dei call center, non hanno ottenuto il rinnovo del contratto. Già fioccano le vertenze. La Costa ha sedi in centro a Roma (via del Babuino) e a Milano (galleria Passerella), fatturato previsto per il 2002 attorno agli 80 milioni di euro. Come ha fatto? Fortuna (molta) ma anche l’intuizione che per conquistare un mercato così particolare bisognava conoscere bene la realtà degli stranieri in Italia, comprendere i loro bisogni e farseli amici. Così il giovane Costa non si è limitato a spedire denaro: ha contattato i vari leader delle comunità estere, i diplomatici a ogni livello, gli agenti d’affari; ha parlato a lungo con i clienti piccoli e grandi, si è fatto raccontare le loro storie, i loro problemi e le loro ambizioni. E ha inventato una rete d’iniziative molto concrete: un libretto gratuito in cinque lingue (compreso l’arabo) per trovare casa, realizzato in collaborazione con il sindacato degli inquilini Sunia; un centro di consulenze (sempre gratis) per chi rischia l’espulsione o ha grane di altro tipo; un call center in cui le centraliniste parlano 22 lingue diverse; un sostegno legale per quelli che finiscono in carcere; e - chicca finale - un ricco sito internet (Stranieriinitalia.it) con tutte le informazioni di cui un extracomunitario può avere bisogno: indirizzi degli uffici stranieri, aggiornamenti sulle norme per l’immigrazione, offerte di lavoro, possibilità di trovar casa, iniziative e feste locali, una guida ai ristoranti etnici città per città e perfino un referendum on-line sulla ”Miss straniera in Italia” (in testa, per la cronaca, c’è Olga Saucenko, splendida bionda lettone di 23 anni). Tuttavia, se non mancano gli aspetti ludici, la maggior parte delle iniziative è assolutamente seria: adesso, per esempio, alla Costa si stanno attrezzando alcuni pulmini da parcheggiare davanti alle Questure quando ci sono le solite, infinite code per i permessi di soggiorno. Distribuiranno generi di conforto, tè caldo d’inverno, acqua fresca d’estate e informazioni tecniche in tutte le stagioni. Il fine? Sociale, certo, perché Costa sostiene che «anche le imprese possono fare solidarietà, non soltanto le organizzazioni cattoliche o quelle di sinistra». Ma l’effetto è soprattutto pubblicitario. In altri termini, con queste iniziative si avvicinano gli immigrati ai punti di money transfer gestiti da Costa per conto della Western Union. Due calci al pallone. La strategia di coinvolgere gli extracomunitari in operazioni aziendali viene messa in pratica anche dall’altro grande agente italiano della multinazionale, la Finint, sede a Milano, 150 dipendenti, 1.800 sportelli e un fatturato di 52 milioni di euro previsto nel 2002, con un più 30 per cento rispetto al 2001. Anche questa è una società familiare: appartiene a Graziano Fioretti (l’uomo che nei primi Novanta ha portato in Italia le Mail Boxes) e al figlio Paolo. Il quale, essendo appassionato di pallone, s’è inventato il primo campionato di calcio per immigrati: 36 squadre in sei diverse città, 700 giocatori iscritti, formazioni con nomi tipo ”Kosovo Bergamo”, ”Milan Africa” o ”Balcani 2001” che si affrontano nei campetti di periferia, preceduti e seguiti da spettacoli di musica etnica e buffet per tutti. Magliette, scarpe e campi sono pagati dalla Finint, i risultati vengono pubblicati tutti i lunedì sulla ”Gazzetta dello Sport” e nel sito web creato apposta (wufl.it). Gran finale il 7 luglio, al Vigorelli di Milano, con la proclamazione della squadra vincitrice e la consegna di uno stereo a ogni campione della Western Union Football League 2002. Insomma gli extracomunitari presi singolarmente forse guadagnano poco, ma messi tutti insieme costituiscono un piatto molto ricco: dunque vale la pena di blandirli. «Il fatto è che i numeri veri sono molto più alti di quelli ufficiali», spiega Francesco Costa: «Secondo noi in Italia sono almeno due milioni e mezzo, di cui 600 mila senza permesso. Vale a dire, oltre il 4 per cento della popolazione». E aggiunge: «Si tratta di una realtà che ha ancora grandi margini di crescita. Gli immigrati non hanno quasi mai il conto in banca e se ce l’hanno trovano difficoltà a spiegarsi. Poi, di solito, hanno fretta di far arrivare i soldi a casa e hanno bisogno di essere aiutati nella burocrazia. Quello che facciamo noi è dare una mano a tutti e garantire che il denaro arrivi dall’altra parte del mondo in tempo quasi reale». Ok anche i clandestini. Il meccanismo, in effetti, è semplicissimo. Si entra in uno dei punti Western Union, si mostra un documento d’identità (ma non c’è bisogno del permesso di soggiorno: anche i clandestini sono silenziosamente ben accetti), si compila un modulino e si consegnano i contanti (niente assegni, e neppure travellers cheques o carte di credito). Si indica il destinatario, ma bastano nome e cognome, oltre alla nazione: non servono indirizzi precisi né numeri di telefono. Il funzionario si collega al call center e l’operazione viene identificata con un codice numerico. Dopo cinque o dieci minuti al massimo, nel Paese indicato, il destinatario che si presenta a un qualsiasi sportello della multinazionale indicando il codice giusto può ritirare la cifra equivalente nella sua valuta locale. O meglio, può ritirare quello che resta dopo che la Western Union ha incassato la sua trattenuta, che varia dal 4-5 fino al 13 per cento a seconda della somma spedita. Ovviamente più è alta e meno si paga in proporzione: se si mandano 65 euro, ben nove e mezzo rimangono nelle casse dell’agenzia; chi invece ne invia 10.329 (la cifra massima stabilita dalla legge italiana, pari a venti milioni delle vecchie lire) ne lascia 401 di commissione. Troppo? Chissà. Certo, una sgradevolissima gabella per chi guadagna poche centinaia di euro al mese, affannandosi in un fast food o facendo le pulizie negli uffici. E gli immigrati che si ritrovano fuori dai punti Western Union se ne lamentano sottovoce, parlottando tra di loro in varie lingue. I vertici dell’azienda sanno di avere tariffe un po’ alte e si difendono nel solito modo: «Noi non siamo interessati a fare una politica di prezzi bassi: offriamo un servizio di qualità, rapido e sicuro, e questo ci basta ad avere una clientela in crescita dappertutto», come spiega il canadese Bill Thomas, paffuto responsabile della multinazionale per tutte le attività fuori dagli Stati Uniti. In realtà tra i punti di forza della corporation americana c’è - oltre alla meticolosa e capillare organizzazione planetaria - il vantaggio di trovarsi di fronte una concorrenza piuttosto scarsa, il che in un’epoca di liberismo sfrenato può sembrare un po’ paradossale: «Qui in Italia, in pratica, i nostri competitor sono soltanto le banche e la posta», spiegano alla Costa. «Con i tempi, gli orari di apertura e i servizi che offrono, con noi proprio non c’è gara», aggiungono. Maledetta percentuale. E così nei negozi Western Union si vedono file disciplinate di sudamericani, albanesi, romeni, polacchi, filippini, centrafricani e cinesi che, volenti o nolenti, compilano il loro bravo modulo ”To send” e poi pagano la detestata percentuale. C’è chi manda 50 o 100 euro (non è prevista una quantità minima) e chi tre o quattromila; ma la maggior parte sta attorno ai 500, lasciandone quindi 33 all’agenzia. Chi ne manda mille, invece, ne paga in commissione 50. Gli albanesi di solito spediscono qualcosa di più, i senegalesi qualcosa di meno, ma non ci sono regole fisse. I più gentili, spiegano i commessi delle agenzie, sono i filippini: grandi risparmiatori, hanno il culto della famiglia e non creano problemi di sorta. Ma anche gli altri clienti dei punti Western Union mostrano dimestichezza e tranquillità nell’effettuare operazioni che ormai sanno a memoria. Uno dopo l’altro, sfilano pony express cileni, viados brasiliani, domestiche peruviane, pulitori cingalesi, girls di strada nigeriane, ristoratori cinesi e operai slavi. Consegnano le banconote, firmano, qualche volta se ne vanno di fretta (i polacchi), spesso si fermano a telefonare (i sudamericani), si siedono al computer per mandare un’e-mail (i pakistani) o restano in piedi fuori dal negozio a fumarsi una sigaretta guardando il traffico che passa (gli albanesi). E gli arabi? Certo, ce ne sono, soprattutto marocchini. Ma la loro presenza nella massa della clientela Western Union non è alta come si potrebbe pensare. Tra gli altri motivi, spiegano informalmente alla Costa, c’è il fatto che i musulmani - specie quelli più intransigenti - non amano mettere il loro denaro in mano ”agli americani” e più in generale a chi islamico non è. Il fenomeno esiste da sempre, ma è aumentato dopo la guerra in Afghanistan e le ultime tensioni in Medio Oriente. E come fanno, allora, a mandare i soldi a casa? Usano canali riservati, ci dicono, gestiti da loro connazionali. Canali alternativi. Queste reti informali costituiscono un pianeta completamente a parte, oggetto di indagini della polizia, della Finanza e dei servizi segreti. Intanto hanno nomi diversi a seconda delle comunità che le gestiscono: hawala quelle arabe, hundi quelle pakistane, hui kuan le cinesi e phoe kuan le thailandesi. Non hanno negozi ufficiali né insegne: di solito sono nelle mani di esponenti delle comunità locali, che agiscono al di fuori delle reti istituzionali bancarie e a volte gravitano attorno alla piccola o grande malavita. A Milano, per esempio, pare che i cinesi usino i loro ristoranti vicino alla stazione centrale, gli stessi che organizzano gli espatri clandestini per la Svizzera con i treni della notte. Gli algerini e i turchi, invece, preferiscono i phone center, ma anche i fast food di kebab e, a volte, le case private. Il problema è che dopo l’11 settembre queste reti sotterranee hanno subito un giro di vite, perché si sospetta che siano usate per finanziare movimenti estremisti. Il risultato è che alcune sono sparite, molte hanno cambiato nome e sede: oggi si tratta di canali quasi segreti, spesso difficili da reperire anche per gli stessi immigrati. A volte, tra i clienti delle agenzie Western Union se ne parla con palese nostalgia e un pò di nervosismo: «Dicono di averle chiuse per colpa dei terroristi, ma secondo me hanno soltanto fatto un piacere agli americani», sostiene Prem, 29 anni, carpentiere cingalese. Un altro, un africano che non vuol dire il suo nome, è ancora più arrabbiato: «Anche con la Western Union si possono finanziare le attività illegali, perché no? Mica lo sanno, loro, chi riceve i nostri soldi veramente». Ma all’azienda americana, naturalmente, s’indignano e smentiscono: «Noi teniamo una documentazione elettronica di tutte le nostre transazioni», dice Bill Thomas «collaboriamo con le autorità e teniamo sempre a disposizione dei nostri agenti un database con 10 mila nomi sospetti». Secondo gli osservatori più attenti, tuttavia, c’è qualcosa di strano nell’enorme giro di denaro che va dall’Italia all’estero anche (o soprattutto) attraverso i cosiddetti canali ufficiali. Perché, per esempio, l’Italia è il secondo mercato del mondo del settore pur non essendo né la seconda economia dei pianeta né il secondo Paese con più immigrati? Com’è che tutti questi soldi passano proprio da noi? Antonio Laudati, magistrato alla Direzione nazionale antimafia, definisce «curioso» il fatto che «il corridoio italiano abbia flussi di trasferimento di valuta fino a quattro volte superiori rispetto a Paesi con il Pil più alto e con più immigrati» e si spinge a ipotizzare che questo mercato sia «probabilmente drogato». Da chi e da che cosa? Più che ad attività terroristiche, gli inquirenti pensano al riciclaggio: il denaro sporco, frutto di attività illegali, verrebbe diviso in piccole somme di contanti e spedito all’estero con i vari servizi money transfer. L’attenzione delle autorità per questo giro, tuttavia, di recente è salita e la Direzione antimafia ha chiesto la collaborazione dell’Ufficio italiano cambi e dell’Università Bocconi per iniziare a monitorare seriamente il fenomeno. L’ombra del riciclaggio. Il problema, peraltro, non riguarda solo l’Italia: secondo Lyle Justus, un ex dirigente della Western Union ”pentito” (oggi accusa l’azienda di eccessiva leggerezza nelle transazioni), «in molti Paesi dove l’azienda ha iniziato a operare negli anni Novanta le contaminazioni da riciclaggio riguardano almeno il 10 per cento dei denaro spedito». E porre un tetto massimo a ogni invio (come quello che c’è in Italia) non servirebbe a niente, perché «cento persone che nello stesso giorno mandano 10 mila dollari da dieci diversi uffici non fanno suonare alcun campanello d’allarme, ma intanto hanno fatto passare da un Paese all’altro un milione di dollari». Justus sostiene anche di essere stato rimosso dal suo incarico proprio per aver osato porre la questione dei soldi sporchi ai vertici aziendali, interessati invece «più a fare utili che a prevenire il rischio di abusi». Del resto, quando un business è in crescita in modo così vorticoso, è facile che nella massa di denaro trasferito passino anche affari illeciti. E quando un cliente si presenta allo sportello con un bel fascio di banconote, l’operatore non è costretto a chiedergli se li ha guadagnati con un lavoro onesto oppure spacciando droga, sfruttando prostitute o magari facendo il passatore per altri extracomunitari in qualche confine di Stato. Tanto più che il meccanismo dell’intermediazione crea guadagni a catena, sicché nessuno ha voglia di rompere il giocattolo: in alto ci sono le colossali multinazionali (come appunto la Western Union o, più defilata, la MoneyGram), in mezzo le agenzie nazionali (come la Costa o la Finint, ma anche la Banca di Sassari e Omnia Finanziaria) e alla fine si trovano i cosiddetti subagenti, cioè quelli che materialmente hanno un esercizio commerciale, prendono il denaro in contanti e telefonano dall’altra parte del mondo per consegnarlo. Questi ultimi sono l’anello estremo della catena, ma hanno un ruolo cruciale, perché è con loro, alla fin fine, che si confrontano ogni giorno i clienti, come sempre accade nel meccanismo del franchising tanto caro al neocapitalismo. Quelli della Costa, per esempio, non nascondono di preferire che i subagenti siano a loro volta immigrati dal Terzo mondo: conoscono meglio i problemi da affrontare, dicono; non incutono timori reverenziali, come invece accade se l’interlocutore è un italiano; e in più integrano spesso il servizio di money transfer con altre offerte utili, tipo la spedizione di pacchi, il collegamento a Internet e così via. Sicché oggi la Angelo Costa si picca di essere «una vera azienda multietnica», con un’altissima percentuale di dipendenti o subagenti stranieri. L’accesso degli extracomunitari alla cornucopia dei soldi in movimento su e giù per il pianeta viene facilitato anche dal fatto che aprire uno sportello Westem Union è molto facile: basta avere una qualsiasi altra attività commerciale con partita Iva (dalla macelleria islamica al phone center), un telefono, un fax, una garanzia bancaria e un’assicurazione: fine, non serve altro. Soprattutto, non c’è bisogno di capitali di partenza, il che non è irrilevante per un aspirante imprenditore venuto dal Sud del mondo. Luoghi preferiti per la nascita di nuovi punti Westem Union: le stazioni, i quartieri etnici, le vie di grande passaggio e i porti. Piccoli imprenditori. In questo modo le rimesse di denaro, lecite o meno che siano, diventano uno strumento con cui gli stranieri più integrati non solo possono diventare piccoli imprenditori, ma partono anche in vantaggio rispetto ai concorrenti italiani, grazie alla conoscenza della lingua e all’empatia con i potenziali clienti. Francesco Costa sostiene che, utilizzando questi meccanismi, aziende come la sua riescono a «coniugare profitto e solidarietà», incentivando gli extracomunitari a diventare soggetti attivi nel sistema produttivo: un po’ come la finanza etica, i microprestiti e il commercio solidale. Ne consegue una scarsa simpatia - da parte di Costa - per la nuova legge Bossi-Fini sull’immigrazione, che potrebbe frenare un mercato in espansione: «Il rischio», dice, «è che con queste norme l’immigrato viva in una condizione di continua precarietà e quindi non faccia nulla per integrarsi. Se uno sa di essere espulso appena perde il lavoro, come prevederebbe la nuova legge, non si sforza neppure di radicarsi, di imparare la lingua, di tenere pulito il suo condominio. E poi che senso ha formare delle persone a un mestiere per poi rimandarle a casa appena finisce il contratto? Questa sarebbe una perdita anche per le imprese, mi pare». Ma la critica di un addetto ai lavori come Costa non finisce qui: «Nella legge Bossi-Fini ci sono anche altri aspetti che lasciano un po’ perplessi. Per esempio, è prevista l’espulsione esecutiva, che in caso di errori non dà possibilità di difesa, perché si può far ricorso solo dopo l’avvenuta espulsione. E poi la norma sul ricongiungimento familiare, previsto solo per i genitori a carico e soltanto se l’immigrato è figlio unico. Si escludono invece i fratelli, le sorelle, i coniugi, e così si crea un ingiusto allontanamento dalle fàmiglie». Settore in espansione. Impossibile capire dove finiscano le convinzioni etiche e dove comincino gli interessi pratici. Ma all’agenzia concorrente, la Finint, la nuova legge sull’immigrazione invece non dispiace: «Accogliere gli stranieri significa offrire l’opportunità di integrazione e richiede da parte loro la disponibilità a integrarsi rispettando regole comuni», dice Paolo Fiorelli. E aggiunge: «Nuove norme che vadano in questa direzione, per chi come noi lavora da sempre in un ambiente regolamentato, non possono che essere le benvenute». Anche i Fiorelli, come la Costa, si presentano al mondo attraverso internet (all’indirizzo www.finint.it), ma lo scopo di questo sito non sembra tanto contattare i potenziali clienti, quanto trovare possibili submandatari e ampliare così le basi della lucrosa piramide: si cercano infatti «brillanti commerciali desiderosi di operare in un settore di forte espansione, in un ambito ricco di stimoli e dinamico». Stessa solfa al sito di Omnia Finanziaria (omniafìnanziaria.it), società veronese del gruppo Penazzi (che dal 1997 si è buttata sul business dell’immigrazione, con buona pace dei leghisti locali). Insomma, alla grande tavolata dell’immigrazione sembra esserci ancora posto. Anche perché, con un po’ di fantasia, si può andare molto al di là delle banali transazioni di denaro. Quelli della Angelo Costa per esempio, stanno mettendo le mani in altri settori, come l’editoria dedicata agli extracomunitari. Hanno fondato una concessionaria di pubblicità, la Etno Communication, che vende gli spazi sui periodici degli immigrati: già oggi sono una decina di testate, dal ”Mundo Brasil” all’’Espresso Latino”, dal ”Bota Shqiptare” all’’African Trumpet”, per un diffuso complessivo di oltre 200 mila copie. E presto alla Costa nascerà anche una radio, con programmi in diverse lingue, musiche etniche e non, notiziari dai Paesi d’origine e informazioni aggiornate sulle nuove leggi. Ah, in mezzo, ci sarà qualche spot della Westem Union. Alessandro Gilioli