Michele Farina Sette, 20/06/2002, 20 giugno 2002
I nazisti e il vino francese
Hitler assaggiava Bordeaux e Champagne e diceva: «Sanno d’aceto», Sette, 20 giugno 2002 «Ehi tu, de Nonancourt, tu che vieni dallo Champagne. Te ne intendi di vini, giusto? Scendi da quel carro che c’è una missione per te. C’è la cantina di Hitler che ti aspetta». il 4 maggio 1945, cinque giorni dopo il suicidio del Führer nel bunker di Berlino: bruciando sul tempo gli americani, un reparto della Seconda divisione meccanizzata francese, al comando del generale Philippe Leclerc, arriva a Berchtesgaden, sulle Alpi Bavaresi, il buen retiro preferito dei gerarchi nazisti. Sul picco che domina la valle, a 2.500 metri di quota, c’è il Nido dell’Aquila, il rifugio di Hiltler e della sua bella Eva Braun. Per raggiungerlo occorre arrampicarsi su per le rocce. O prendere l’ascensore nelle viscere della montagna, quello che Hitler si è regalato per il suo cinquantesimo compleanno: costato tre anni di lavoro e 30 milioni di marchi, un telefono con linea diretta per Berlino e Parigi, soffici cuscini, una porta placcata in oro che si apriva sul tetto della Germania. Quel giorno di maggio il sergente Bernard de Nonancourt non usò l’ascensore, che i nazisti in ritirata avevano messo fuori uso. Salì a piedi per un paio d’ore, e nell’ultimo tratto mandò avanti una squadra di scalatori perché calassero le corde dall’alto. Bernard e i suoi uomini si issarono così sul Nido dell’Aquila. Fecero saltare la porta blindata. Mentre qualcuno si preoccupava di alzare la bandiera francese al posto di quella nazista, il sergente venuto dallo Champagne cercò la cantina. Rimase a bocca aperta: sotto la luce della sua torcia c’erano almeno mezzo milione di bottiglie. Rastrelliere di ferro e casse di legno, dal pavimento al soffitto. Molte magnum. Le migliori annate, le migliori etichette. Vini francesi. I Bordeaux erano straordinari: Rothschild, Lafite, Mouton. C’erano i Borgogna, e poi gli champagne: Krug, Bollinger, Moët, Piper-Heidsieck, Pommery. In mezzo a tutto quel vin di Dio, Bernard de Nonancourt intravide la marca Lanson, quella che apparteneva a sua zio. Scherzò con i compagni: «Ehi, quel vino forse l’ho fatto io». Hitler era stato al Nido dell’Aquila solo tre volte, perché l’altezza gli toglieva il fiato. E il vino non gli piaceva. Eppure la cave era fornitissima. La cosa più preziosa, là dentro, era il Salon 1928, bollicine di annata superba e quasi introvabile: quasi cinque anni prima lo stesso Bernard aveva visto gli uomini del Feldmaresciallo Göring razziarne le ultime bottiglie quando lavorava a Delamotte, una casa vinicola che stava dall’altro lato della strada rispetto a Salon. Ora quel vino sarebbe tornato in Francia. Ma come portare a valle mezzo milione di bottiglie? De Nonancourt chiamò il reparto medico. Immaginate un dialogo da film. Comandi, sergente? «Ci servono tutte le barelle che avete, su al Nido dell’Aquila». Molte perdite, sergente? «No, molto champagne». Le bottiglie bendate e fissate alle barelle, le barelle calate con le corde alla base del dirupo. Da lì, duecento soldati le portano giù a piedi. E poi sui carri armati fino a Berchtesgaden, dove nel frattempo sono arrivati gli americani, furenti per lo scippo della bandiera (e forse del vino). Il generale Wade Haislip, comandante del ventunesimo Battaglione dell’Esercito, ordina di ammainare dal Nido dell’Aquila il vessillo francese e di issare quello a stelle e strisce. Quanto allo champagne, gli americani non rimasero certo a gola secca. Ogni chalet aveva la sua cantina ben fornita: quella di Göring, che sarebbe morto suicida al processo di Norimberga, ne conteneva diecimila. E delle migliori. Mentre Hitler, il giorno che gli fecero assaggiare dell’ottimo vino francese, disse che «sapeva di aceto», il suo delfino Göring si piccava di essere un sommelier: su tutto lui preferiva il Bordeaux, specie quelli della Château Lafite-Rothschild. A rivaleggiare con Göring nell’autostima di enologo c’era il ministro della Propaganda Joseph Goebbels, che apprezzava in particolare i Borgogna, mentre il ministro degli Esteri Ribbentrop amava lo champagne, dai tempi in cui, prima della guerra, era stato il rappresentante in Germania di marche blasonate come Mumm e Pommery, anche se poi aveva patriotticamente scelto di sposarsi con Anneliese Henkel, figlia del cosiddetto «re dello champagne tedesco». Negli chalet dei gerarchi, però, lo champagne era quasi tutto francese. Non sempre di ottima qualità. Nella cantina del Nido dell’Aquila, accanto al Salon 1928, il sergente de Nonancourt trovò anche bottiglie con la scritta ”Riserva per la Wehrmacht”. In realtà era lo champagne più scadente, quello destinato a tenere alto il morale dell’esercito tedesco, che i francesi riuscivano a gabellare per buono dandolo da bere ai nazisti. Vederlo lì, nella cantina del Führer, fece sorridere il sergente Bernard. Suo padre avrebbe sorriso con lui: «Ai crucchi abbiamo dato gli scarti». De Nonancourt tornò nello Champagne, da sua madre Marie-Luise, con una cassa di Salon 1928 e una storia in più da raccontare. Storie di guerra e di vino nella Francia anni Quaranta. Due giornalisti, Don e Petie Kladstrup, marito e moglie, le hanno raccolte in un libro pubblicato a Londra: Wine & War, sottolineando «la battaglia per il tesoro più prezioso dei francesi». In confronto a tutti gli orrori della guerra, quella del vino fu una battaglia incruenta, anche se combattuta casa per casa. Robert Drouhin aveva sei anni il giorno che nascosero il tesoro di famiglia. Il padre Maurice aveva una casa vinicola a Beaune, in Borgogna. Quando scoppiò la guerra scesero in cantina, una rete di grotte alcune delle quali risalivano al 1300. Non si poteva salvare tutto, ma almeno le annate più preziose di Romanée-Conti dal 1929 al 1938 erano un’assicurazione sul futuro della famiglia: «Mentre papà metteva i mattoni, la mamma, mia sorella e io andavamo in giro a prendere ragni: le ragnatele avrebbero fatto sembrare il muro più vecchio. Funzionò». Nei mesi che precedettero l’invasione tedesca, nelle cantine francesi furono costruiti centinaia di muri. Evitando gli errori del passato. Durante la Prima guerra mondiale un proprietario terrorizzato dal’idea che le truppe del Kaiser potessero rubargli il vino, fece nascondere le sue bottiglie sul fondo di un laghetto. Il giorno dopo la superficie dell’acqua era ricoperta da uno strato di etichette come ninfee. Alla guerra successiva André Foreau, vignaiolo di Vouvray, nascose le bottiglie sotto i piselli. La madre del sergente de Nonancourt ricavò una nicchia con una statua della Madonna nel muro alzato di fresco per proteggere il vino. Nelle città furono meno previdenti che nelle campagne. A Parigi André Terrail, proprietario del famoso ristorante La Tour d’Argent, aveva impiegato anni per raccogliere una delle cantine più rinomate del mondo, centomila bottiglie, molte dell’Ottocento. Sei ore prima che i nazisti entrassero a Parigi, il 14 giugno 1940, riuscirono a murare uno spazio sotterraneo dove raccolsero 20 mila etichette migliori, specie quelle dell’annata 1867, l’orgoglio di André. Un ufficiale tedesco si recò su ordine del Feldmaresciallo Göring alla Tour d’Argent. Chiese notizie della famosa annata 1867. « tutto finito», rispose il generale Gaston Masson. «Se volete dare un’occhiata alla cantina ...». I tedeschi cercarono ma non trovarono. Si portarono via le altre 80 mila bottiglie. Gli occupanti nazisti crearono un corpo speciale di «mercanti in uniforme», che aveva il compito di comprare (sottocosto) tutto il vino francese e portarlo in Germania. Erano chiamati Weinführer i führer del vino. Alcune case, come la Moët & Chandon, finirono sotto il diretto controllo tedesco. Altre, come la Lafite-Rothschild tanto amata da Göring, furono sequestrate dal regime collaborazionista di Vichy, per impedire che fossero dichiarate «proprietà ebree» e confiscate dai nazisti. Il maresciallo Pétain, capo di Vichy, aveva una vigna in Provenza, ma ciò non gli impedì di lanciare una crociata contro l’alcolismo. Pétain diceva che i francesi avevano perso la guerra perché bevevano troppo, un bar ogni 80 abitanti contro uno ogni 270 in Germania. Questa campagna gli permetteva di inviare tutto il vino in Germania, ingraziandosi i signori di Berlino. Alla fine della guerra, 160 mila francesi furono accusati di collaborazionismo. Crimini orrendi, come la deportazione degli ebrei francesi. Ottocento condannati furono giustiziati, 38 mila finirono in galera. Pétain ebbe l’ergastolo. A Bordeaux si celebrò il processo contro Louis Eschenauer, uno dei più potenti commercianti di vini di Francia, accusato di aver accumulato una fortuna facendo affari con il Weinführer Heinz Bömers. Lui si difese dicendo che grazie alle sue amicizie aveva evitato che il porto della città fosse minato e saltasse in aria. Condannato, fu amnistiato nel ’52. Visse il resto della sua vita nel castello di Camponac, vicino Bordeaux. Diceva: «Dopo il 1918, mi hanno dato una medaglia per aver venduto vino ai tedeschi. Dopo il ’45 per la stessa cosa mi hanno messo in galera». Anche il barone Philippe de Rothschild tornò nel suo castello di Mouton. Era fuggito nel ’42 per unirsi alle forze del generale de Gaulle. Sua moglie, la contessa Elizabeth, non era ebrea e rimase a casa. Pochi giorni prima della liberazione di Parigi la Gestapo mise la contessa su un treno. Morì nelle camere a gas di Ravensbrück. Anni dopo, Philippe ricevette una lettera: «Ho sempre amato i vini di Mouton. Mi domando se potrei avere l’onore di rappresentarli per voi in Germania». Firmato Heinz Bömers, l’ex Weinführer di Bordeaux. Il barone rispose: «Perché no, è una nuova Europa quella che stiamo costruendo». Michele Farina