Lorenzo Cremonesi io donna, 08/06/2002, 8 giugno 2002
Coloni d’Israele: più che l’ideale poté il risparmio, io donna, 8 giugno 2002 Nessuna ideologia della Grande Israele, nessuno slancio messianico per venire a vivere nei luoghi della Bibbia e nessuna scelta militante di diventare le ”sentinelle dello Stato” contro la minaccia araba
Coloni d’Israele: più che l’ideale poté il risparmio, io donna, 8 giugno 2002 Nessuna ideologia della Grande Israele, nessuno slancio messianico per venire a vivere nei luoghi della Bibbia e nessuna scelta militante di diventare le ”sentinelle dello Stato” contro la minaccia araba. Quando, dodici anni fa, Shlomo Eliahu scelse di prendere casa sulle colline della Cisgiordania occupata nella guerra dei Sei giorni, a prevalere furono considerazioni molto più venali. «Non ho alcuna vergogna a dirlo, fui guidato dalla mia cronica mancanza di risparmi» spiega questo 45enne contento di mostrare dal balcone della sua camera da letto il sole tramontare, colorare di rosa il deserto sassoso e declinare via via verso il Mar Morto. «Allora guadagnavo una miseria. Il mio mestiere di ufficiale di polizia permetteva di dar da mangiare a moglie e tre figli, ma ben poco di più. Cercavo casa. E scoprii che grazie agli incentivi del governo potevo comprare a Ma’alè Adumim una villa a tre piani e giardino con meno di 285.000 dollari, con mutui a tasso quasi zero dallo Stato e larghe esenzioni fiscali. La mia abitazione supera i 240 metri quadri. Praticamente un regalo. La stessa nel centro di Gerusalemme sarebbe costata almeno tre volte di più, non avrei mai potuto averla». Così Shlomo si è andato ad aggiungere alla schiera di pendolari che ogni giorno partono in auto dalle loro abitazioni in Cisgiordania per andare a lavorare oltre la ”linea verde”, come è definito il vecchio confine che dalla nascita di Israele nel 1948 al conflitto del 1967 delimitò le zone di Cisgiordania e della striscia di Gaza. «Ma per noi è un viaggio breve, solo 11 chilometri ci separano dal centro di Gerusalemme. Con poco traffico ci arriviamo in una decina di minuti. Qui comunque troviamo tutti i servizi necessari, supermercati, edicole, bar, ristoranti. Chi può evita di viaggiare. Le strade non sono mai troppo sicure in questo tempo di Intifada» aggiunge. Un modo di pensare che va per la maggiore tra gli oltre ventimila abitanti ebrei di Ma’alè Adumim. Gente che è andata a vivere in una delle zone più controverse al mondo perché attirata dall’aria buona, il verde, le ville con piscina, gli asili, i supermarket e l’ambulatorio medico a pochi metri dalla porta di casa e soprattutto perché tutto questo era estremamente a buon mercato. vero che tra loro è popolarissimo il Likud, il partito di Ariel Sharon. Ed è vero che molti negli ultimi anni temevano che i negoziati di pace con Yasser Arafat potessero pregiudicare l’esistenza di un gran numero di colonie in Cisgiordania e Gaza. Ma è anche vero che come sono arrivati potrebbero andarsene. « tutta una questione di prezzo. Se il governo mi dicesse che è disposto a finanziare cospicui indennizzi per ricomprarmi una casa a Tel Aviv o comunque all’interno dei confini del 1967, potrei facilmente accettare» dice Menachem, un impiegato comunale residente nella casa accanto a Shlomo. Ehud Sprinzak, noto studioso dell’estrema destra israeliana, afferma che dei circa 200 mila ebrei residenti nei territori occupati (senza contare i 238 mila ebrei nelle zone di Gerusalemme est), «solo venti-trenta-mila sarebbero davvero pronti a resistere con la forza contro un ordine di evacuazione». Gli altri potrebbero partire, a patto di venire ben sovvenzionati, così come avvenne nel 1982 con i circa cinquemila coloni andati via al momento del ritiro israeliano dal Sinai nel rispetto dell’accordo di pace con l’Egitto. « tutta una questione di soldi. I coloni per lo più sono arrivati perché attirati dalle fantastiche facilitazioni economiche: tasse ridotte fino alla metà (come avviene per i residenti in regioni considerate a rischio, ndr), mutui bancari, a condizioni ottime, una qualità della vita senza eguali nel Paese a prezzi tanto contenuti», aggiunge Sprinzak. Un esempio? Shlomo paga la metà delle tasse sugli immobili rispetto a quelle pagate da Jakob Chicorel, un amico che vive in una villa di 120 metri quadri (la metà di quella di Shlomo) in un nuovo quartiere di Gerusalemme ovest, posto all’interno della ”linea verde”. Ma, pur se in tempi di Intifada, oggi resta più facile che Jakob decida di raggiungere Shlomo a Ma’alè Adumim, che non il contrario. I dati parlano chiaro: nonostante dal 1987 la violenza nei territori occupati sia via via cresciuta, gli ebrei residenti si sono letteralmente moltiplicati. In Cisgiordania i coloni erano poco più di centomila alla vigilia degli accordi di Oslo nel 1993, oggi sono circa 215 mila. E ciò nonostante le pressioni contrarie da parte della comunità internazionale, le promesse ad Arafat che quelle stesse terre diventeranno il cuore del futuro Stato palestinese e nonostante la maggioranza della popolazione israeliana resti tendenzialmente favorevole al principio del ritiro in cambio della pace. Grande fautore delle colonie resta lo stesso Ariel Sharon. Alla fine degli anni Ottanta fu lui, in qualità di ministro dell’Edilizia nell’allora governo di Ytzhak Shamir, a disegnare lo sviluppo di Cisgiordania e Gaza ebraiche. E da allora non ha mai mutato idea. Con il suo consenso sono state fondate 35 nuove colonie nell’ultimo anno di governo. «Considero Netzarim tanto importante quanto Tel Aviv» ha esclamato un mese fa in Parlamento, riferendosi a una piccola e isolata colonia nella striscia di Gaza, che molti negli ambienti militari vorrebbero smantellare perché giudicata troppo costosa da difendere. E per rimarcare le sue convinzioni, Sharon ha continuato: «Sino a che sarò premier gli insediamenti non si toccano!». A detta dei palestinesi è questo il modo più diretto per boicottare ogni tentativo di compromesso. Secondo uno studio reso pubblico il 13 maggio dal B’Tselem, uno dei centri israeliani più attivi per la difesa dei diritti umani, al momento le aree urbane delle colonie rappresentano solo l’1,7 per cento della Cisgiordania, ma controllano da sole il 42 per cento della regione. Lo studio, intitolato Il furto della terra, dimostra che la politica israeliana resta quella di «frammentare e cantonizzare» le zone palestinesi per rendere fisicamente impossibile la continuità territoriale di un eventuale futuro Stato indipendente. Ciò vale con Sharon, ma era valido anche nel 2000, al tempo del governo laburista di Ehud Barak: «Oggi come allora le municipalità delle colonie ricevono fondi pubblici che mediamente sono il 65 per cento in più di quelli ricevuti dalle corrispettive municipalità in Israele». Davvero Shlomo Aliahu può dormire sonni tranquilli. Lorenzo Cremonesi