Il Sole 24 Ore 08/03/2006, Giuliano Da Empoli, 8 marzo 2006
Lezioni americane per le donne in carriera. Il Sole 24 Ore 8 marzo 2006. Gli auguri del settimanale americano "Newsweek" alle donne europee, quest’anno, sono arrivati con qualche giorno di anticipo
Lezioni americane per le donne in carriera. Il Sole 24 Ore 8 marzo 2006. Gli auguri del settimanale americano "Newsweek" alle donne europee, quest’anno, sono arrivati con qualche giorno di anticipo. E hanno assunto la forma di un indovinello: "In quale parte del mondo le donne hanno più possibilità di fare carriera: negli Stati Uniti, dove il congedo di maternità dura tre mesi, non esistono asili pubblici, né agevolazioni per i padri; o in Europa, dove il periodo di maternità retribuita va da cinque mesi a tre anni, gli asili sono gestiti o finanziati dallo Stato e una miriade di agenzie governative sono incaricate di promuovere le pari opportunità?" La risposta l’ha data, l’estate scorsa, uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dal quale risulta che, negli Usa, il 45% dei decision maker pubblici e privati è donna, contro il 33% della Gran Bretagna, il 29% della Svezia, il 27% della Germania e, tanto per cambiare, un deprimente 18% dell’Italia. Sembra un paradosso, ma lo è solo in apparenza. Il fatto è che, come accade talvolta ai meccanismi del welfare state, il congedo di maternità ha tendenza a trasformarsi in una trappola. Incentivare le donne ad abbandonare il lavoro per periodi molto lunghi (non meno di un anno, in media, in Italia), significa accrescere a dismisura le probabilità di esclusione, o di auto-esclusione, dai percorsi di carriera più gratificanti. Non è un caso se i dati della società di consulenza aziendale U2 Coach dicono che, da noi, una donna su cinque smette di lavorare dopo la maternità. Nel 7% dei casi, questo avviene per causa di licenziamento, nel 24% dei casi per mancato rinnovo del contratto di lavoro e nel 69% dei casi per scelta delle neo-mamme. Il fatto è che abbiamo preso male la mira: nel tentativo, peraltro riuscito solo in parte, di accrescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro, abbiamo puntato su strumenti, come l’estensione del congedo di maternità, che sembrano fatti apposta per disincentivare le donne dal puntare sulla carriera. Cosi facendo, abbiamo perpetuato la vecchia incompatibilità tra lavoro e maternità, spostandola semplicemente a un livello diverso. Se, in passato, il fattore M (come maternità) teneva le donne lontane dal lavoro, oggi impedisce loro di fare carriera. Che cos’è, infatti, un congedo di maternità di lunga durata, se non la concreta ammissione dell’incompatibilità tra vita professionale e vita personale? Il problema, come al solito, è quello di un modello di welfare che privilegia le soluzioni burocratiche rispetto a quelle concrete. Una cosa, infatti, è decretare per legge l’estensione del congedo di maternità o l’introduzione del congedo di paternità. Tutt’altra cosa mettere in piedi un sistema complesso e articolato, che consenta un’effettiva libertà di scelta alle donne. Al di là delle questioni di policy, però, l’indovinello di "Newsweek" pone una questione più fondamentale. Il fatto è che la questione delle pari opportunità va messa in prospettiva. Una società dinamica, proiettata sul futuro e attraversata da un continuo processo di distruzione creativa come quella americana è inevitabilmente destinata a dare spazio agli outsider, dei quali le donne rappresentano una componente cospicua. Al contrario, una società bloccata, i cui protagonisti si asserragliano nel disperato tentativo di proteggere le proprie rendite di posizione è anche una società blindata, all’interno della quale le barriere tra insider e outsider tendono a diventare insormontabili. La questione delle pari opportunità è destinata a rimanere perdente fino a quando non costituirà l’oggetto di un radicale ripensamento. Non si tratta solo di una questione di equità. Si tratta, innanzitutto di una questione di convenienza. Negli Usa, una ricerca recente ha messo in evidenza una stretta correlazione tra la percentuale di donne nel top management e la performance finanziaria di 500 aziende monitorate dalla rivista "Fortune" tra il ’96 e il 2000. In Europa, non è certo un caso che le donne si affermino nei contesti imprenditoriali più vivaci: la Svezia di Cristina Stenbeck, la Spagna di Ana-Patricia Botin. Il fatto è che la presenza di donne è un indicatore certo di meritocrazia. Non perché siano necessariamente più brave degli uomini, ma perché la presenza, all’interno di un gruppo dirigente, di soggetti differenziati (per sesso, per età o per razza) è l’indice più certo dell’esistenza di una competizione aperta e allargata per le posizioni di vertice. Al tempo stesso, la diversità produce un effetto virtuoso. In un sistema di tipo fordista, fondato sull’ottimizzazione di procedure consolidate nel tempo, in effetti, la diversità non era sempre un vantaggio. A fare premio, in quel caso, era soprattutto l’omogeneità di un gruppo di lavoro capace di interagire senza attriti e di condividere un punto di vista. I nostri sistemi produttivi, però, sono ormai entrati in una fase diversa, che alcuni definiscono post-industriale. Nell’ambito della quale, come ci ha ben mostrato William Brian Arthur, a far premio, più che la capacità di ottimizzazione è la capacità innovativa. Che dipende, com’è noto, dalla capacità di mobilitare e di far interagire punti di vista anche molto differenziati, alla ricerca di soluzioni inedite per problemi molto spesso privi di precedenti. Volendo riassumere quanto detto fin qui, in pratica, si potrebbe dire che questo 8 marzo ci porta una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che, sempre più, gli indicatori ci confermano che le principali dinamiche economiche si muovono in una direzione favorevole a una più ampia partecipazione femminile, a tutti i livelli del mondo del lavoro. Quella cattiva, però, è che abbiamo di fronte un percorso a ostacoli, forse più difficile di quanto immaginassimo. In tutta Europa, un’accresciuta presenza femminile sui gradini più bassi del mercato del lavoro non implica automaticamente un incremento proporzionale del numero di donne collocate ai vertici. Al contrario, alcuni degli strumenti ai quali avevamo fatto ricorso nel tentativo di perseguire il primo obiettivo potrebbero aver reso ancor più arduo il raggiungimento del secondo. Giuliano Da Empoli