Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  luglio 16 Martedì calendario

Un taxi driver può far più paura di Osama bin Laden, Corriere della Sera, martedì 16 luglio 2002 New York

Un taxi driver può far più paura di Osama bin Laden, Corriere della Sera, martedì 16 luglio 2002 New York. A volte uccidono col sorriso sulle labbra. Quasi sempre convinti di rubare alla vittima illustre un pezzo di palcoscenico: sparano come potrebbero chiedere un autografo. Come Mark David Chapman che, poche ore prima di ammazzare John Lennon incitato dai demoni che sentiva nelle orecchie («fallo, fallo!»), s’era fatto firmare un suo album, Double Fantasy. Sihran Sihran, l’assassino di Bob Kennedy, sorrideva e sembrava sotto ipnosi mentre premeva il grilletto, ma poi disse chiaro e tondo: «Ora tutti mi conoscono, in una notte ho conquistato la celebrità che Bob aveva impiegato una vita a raggiungere». Centotré anni prima, John Wilkes Booth aveva confessato alla sorella Asia: «Devo avere la fama, devo averla! Dio mi ha dato una missione». Era un buon attore, ma voleva di più: monomaniaco della causa confederata, stava già progettando di eliminare Abramo Lincoln. Che siano o meno pedine inconsapevoli di qualche complotto non conta troppo alla fine, per loro l’odio politico sembra un pretesto più che una causa prima: i lupi psicolabili della steppa a mano armata si assomigliano tutti in America, da oltre un secolo e mezzo. Tutti con un potente da abbattere e un messaggio da consegnare al mondo. Maxime Brunerie, il mitomane neonazista che domenica ha attentato alla vita di Chirac, non ha inventato nulla. Semmai ha importato un modello. E la sua storia sembra richiamare quella di John Hinckley, lo schizofrenico che sparò a Reagan. John il suo ”testamento” lo aveva inciso tre mesi prima su un nastro, all’alba del Capodanno 1981: «Tutto ciò che farò quest’anno sarà solo per amore di Jodie Foster». Già da un po’ s’era messo in testa di vivere dentro Taxi driver. Nell’albergo di Denver, dove s’era rifugiato a preparare il suo piano, s’era registrato sotto il nome di Travis, come il protagonista maschile del film, interpretato da De Niro. Che non avesse tutte le rotelle a posto l’avevano capito persino i nazisti del suo gruppo, il ”National Socialist Party of America”. Dall’ottobre ’80, seguiva Jimmy Carter e Ronald Reagan nelle loro uscite in campagna elettorale, forse aspettando di vedere chi l’avrebbe spuntata: l’avevano già beccato con tre pistole addosso in Tennessee, tappa comune dei due candidati, ma nessuno s’era preso la briga di dirlo ai servizi. Il 30 marzo ’81 Reagan era da poco in carica quando se lo trovò a qualche metro, davanti a un hotel di Washington: ”Travis” gli piazzò una pallottola calibro 22 nel polmone sinistro, facendo vivere al Paese momenti di angoscia che non si ricordavano più dai giorni dell’assassinio di John Kennedy. Tutto, pur di far colpo su Jodie, si capisce. Finì in manicomio, dove doveva stare già da un pezzo. Il vecchio Reagan si salvò grazie alla sua scorza da leone, consegnando ai libri di testo una delle sue celebri battute: «Spero almeno che siate tutti repubblicani», disse ai chirurghi che l’operavano. Brunerie in qualche modo sembra aver ripercorso, per fortuna con uno stile ancora più goffo, i passi di Hinckley. E tuttavia l’elemento più inquietante sta nella contaminazione con un modello psicologico che ha segnato la storia degli Stati Uniti. Da Gaetano Bresci a Gavrilo Princip, l’omicidio politico non è certo un’esclusiva americana: ma qui, dal 1835, sono stati tredici gli attentati - di cui quattro mortali - contro presidenti in carica. Andrew Jackson fu il primo e se la cavò solo con qualche spavento. Poi toccò a Lincoln, quindi a James Garfield, freddato nel 1881 da un pazzo che voleva convincerlo di essere l’uomo giusto per rappresentare il Paese all’estero. Anche Nixon e Ford sono entrati nel mirino. Ogni anno l’inquilino della Casa Bianca riceve in media trecento minacce di morte. Jack Levin, un criminologo dell’università di Boston, sosteneva qualche anno fa: «In Europa il pericolo del terrorismo viene dalla politica. Da noi viene dagli psicopatici: e contro questa gente non c’è niente da fare, sono troppi, è come cercare un fiocco di neve in una tempesta». Ora Maxime sembra voler colmare la distanza tra le due sponde dell’oceano. Nella terra di Tim McVeigh e di Unabomber, il lupo solitario americano ha una tradizione lunga alle spalle, la voglia di abbattere il leader mutuata da mal digerite teorie dei monarcomachi protestanti e trasformata, negli ultimi decenni, dall’impatto con la società dei media: il ”monarca” da eliminare può essere un capo della quasi sempre odiata democrazia di massa, un soggetto collettivo (i governativi nel Murrah Building federale, come nel caso di McVeigh) ma anche semplicemente il capofila di una generazione, un simbolo della cultura popolare. Dopo l’assassinio di Lennon lo psichiatra Park Dietz diede l’allarme: «La gamma degli obiettivi include ora sia i leader politici che quelli dello spettacolo e richiede un nuovo approccio alla protezione delle figure pubbliche». Una parola. Prima che l’attacco alle Torri sconvolgesse qualsiasi gerarchia d’urgenza, un esperto dell’Fbi come Thomas Ressler spiegava: «Gli assassini solitari sono quelli che mi spaventano di più, vengono fuori dal nulla e il nulla non si può prevenire». Quando, nel ’98, il paranoico Russel Weston junior, dopo avere ammazzato sedici gatti del suo quartiere, entrò nel Congresso sparando a due agenti federali, convinto che Clinton volesse ”catturarlo”, i servizi segreti avevano da poco completato uno studio, frugando nei dossier fino al 1949: «Il tratto comune degli attentatori è che considerano il governo come il loro nemico». Seguiva l’elenco di otto molle scatenanti: in cima, il desiderio di notorietà, il bisogno di sviluppare una ”speciale relazione” con la vittima, la convinzione di salvare la nazione o il mondo. Il professor Levin ha elaborato un identikit psicologico (’frustrazione, mancanza di affetti, paranoia, solitudine”) che, come una macchina del tempo, può risalire di attentato in attentato, di pistola in pistola, disegnando l’archetipo del killer americano. Da ”Squeaky” Fromme, l’allieva di Charlie Manson che sparò a Gerald Ford, all’infanzia malata di Lee Oswald, l’assassino di John Kennedy, fino a Leon Czolgosz, l’anarchico nevrotico che ammazzò il presidente McKinley a Buffalo: «Non ce l’avevo con lui - disse Leon, prima di arrostire sulla sedia elettrica - ma non è giusto che un uomo abbia una carica così importante e un altro non ne abbia nessuna». Era il 1901, e la malattia di Maxime Brunerie era già epidemica. Goffredo Buccini