Fabio Poletti Specchio, 01/06/2002, 1 giugno 2002
L’apocalisse di Unabomber, detenuto 04475-046, Specchio, 1 giugno 2002 Nella sua prima lettera, fogli a righe e grafia minuta, è diffidente: «Ho imparato per esperienza a essere cauto con i giornalisti»
L’apocalisse di Unabomber, detenuto 04475-046, Specchio, 1 giugno 2002 Nella sua prima lettera, fogli a righe e grafia minuta, è diffidente: «Ho imparato per esperienza a essere cauto con i giornalisti». Nella seconda, poche settimane dopo, torna a essere il professore di Berkeley con la matita rossa: «Hai sbagliato, Noam Chomsky si scrive con la y». Quando si fa aspettare troppo, chiede scusa: «Sto preparando un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti». Quando sa che scriverò su ”Specchio” della nostra corrispondenza che va avanti da nove mesi, attraverso mari e mura, avverte: «Non mandarmi il giornale, qui dentro non me lo darebbero». Lì dentro è una cella singola, carcere di massima sicurezza di Florence, Colorado. Dove si trova Theodore John Kaczynski, matricola 04475-046, Ted come si firma nelle lettere che mi manda dopo il visto della censura, ”Unabomber” come lo conosce il mondo dal 3 aprile del 1996, quando l’Fbi fa irruzione nella sua capanna vicino a Baldy Mountain, Lincoln, Montana. Lo accusano di 16 attentati dinamitardi in 18 anni, che hanno provocato tre morti e ventitré feriti. Con le sue lettere imbottite di esplosivo colpiva docenti universitari di materie scientifiche, titolari di negozi di computer e dirigenti di compagnie aeree. Tutte vittime della sua guerra alle tecnologie, spesso ignare di essere un obiettivo, a volte solo un simbolo da distruggere, come se un albero valesse più della vita di un uomo. Di Unabomber non si parla da anni. Ma nel mondo no-global, le organizzazioni ecologiste più radicali sembrano condividere alcune sue tesi se non la sua pratica. La rivista indipendente ”The Nation” arriva a paragonarlo all’intellettuale americano Noam Chomsky, definendolo come uno dei guru contro la globalizzazione. Quando glielo scrivo, risponde che gli vien da ridere: «Non ho niente a che fare con Chomsky, i no-global e i sinistroidi. Sbagliano obiettivo, il problema sono le tecnologie, non la globalizzazione». Un anatema, più che una smentita. Ma Ted Kaczynski se lo può permettere. Nella lotta contro le tecnologie ha speso la vita, la sua e quella di altri. Sessant’anni, nato a Chicago da immigrati polacchi, Ted Kaczynski sin da bambino promette di essere un genio: a sei anni ha il più alto quoziente di intelligenza di tutta la scuola, a 16 entra ad Harvard, a 20 si laurea, a 25 ottiene il dottorato in Matematica all’Università del Michigan, due anni dopo diventa docente a Berkeley, Università della California, Dipartimento di Scienze matematiche. Nel ’69, l’anno del Vietnam e della contestazione, il professor Kaczynski lascia tutto senza spiegazioni. Compra sei ettari di terreno nel Montana, costruisce una capanna senza luce né acqua. I vicini lo chiamano ”l’eremita”. L’Fbi lo ritrova 27 anni dopo. Quando lo condannano all’ergastolo dice solo: «Preferirei essere giustiziato, piuttosto che passare la mia vita in carcere». Cinque anni dopo chiede la revisione del processo. Il 17 agosto 2001 la Corte d’appello di San Francisco respinge l’istanza. Lui ricorre alla Suprema Corte che si deve ancora esprimere e in una lettera spiega con linguaggio burocratico: «Certe volte si confessa semplicemente perché è l’unica indesiderata alternativa in una data situazione legale». In attesa della decisione della più alta corte di giustizia americana («Se diranno no, il mio processo sarà finito», scrive) è solo un detenuto di massima sicurezza, cella singola, poche ore d’aria al giorno e la televisione, dove vede crollare le Twin Towers e assiste al panico provocato dalle lettere all’antrace: «Non sono qualificato a fare commenti, penso che dietro non ci sia solo una questione economica o politica». Dopo i fatti del G8 a Genova, gli scrive un ragazzo danese che rivendica la distruzione delle vetrine dei fast-food come atto di guerra alla globalizzazione. Lui risponde: «Distruggere le vetrine di McDonald’s o Starbucks è senza senso. Non è un’attività rivoluzionaria». Precisa: «Se un bulldozer sradica un bosco vicino a casa tua, è colpa del bulldozer o della compagnia che lo ha mandato? Danneggiare il bulldozer non basta, è troppo facile da rimpiazzare». La sintesi del suo pensiero la trova in una formula: «Hit where it hurts». La traduzione del titolo del documento, 21 pagine, la calligrafia di sempre, è facile: «Colpisci dove fa male». Per non essere frainteso, è costretto a spiegare: «Sono un prigioniero, non sto invitando nessuno a compiere attività illegali. Quando dico ”Hit where it hurts” non mi sto riferendo a colpi fisici, ovviamente intendo che bisogna colpire in modo legale». Dalla sua cella continua a scrivere e studiare: «Io lo so che il progresso rappresenta comfort per tutti ma il prezzo del benessere che arriva dalla tecnologia è troppo grande da pagare». Il suo incubo è la perdita di individualità. La sua ossessione è il predominio delle macchine, lo svuotamento del ruolo degli esseri umani. E le sue parole che arrivano dal carcere sembrano il paradosso della sua condizione: «Abbiamo una libertà quasi illimitata per le azioni ricreative, ma siamo completamente impotenti rispetto alle condizioni in cui viviamo». Le sue idee, per l’Fbi, sono la prova della sua colpevolezza. Troppo uguali al manifesto di Unabomber, pubblicato nel ’95 dietro il ricatto di altri attentati, sul ”Washington Post”, sul ”San Francisco Chronicle” e sull’’Oakland Tribune”. Nel manifesto, 232 paragrafi come una tesi di laurea, c’è la summa del pensiero di un ecoterrorista che contesta la tecnologia alla base della società moderna: «La rivoluzione industriale è stata un disastro. Ha destabilizzato la società, reso la vita insignificante, inflitto danni al mondo naturale e assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni». La critica di Unabomber colpisce anche gli ambientalisti o i movimenti di sinistra: «La sinistra è collettivista, cerca di unire il mondo, sia la razza umana che la natura, in un complesso unificato. Questo implica la direzione di una società organizzata e richiede una tecnologia avanzata». Politologi, sociologi, economisti hanno bollato come ”spazzatura” il manifesto. «Idee vecchie e male elaborate», la critica più lieve. Eppure i temi contenuti nelle tesi fanno discutere. In rete ci sono 56.900 siti dedicati a Unabomber, 38.800 sono in inglese, 1.330 in italiano, 290 in russo, 194 in cinese, 6 in arabo e 5 in ebraico. In un libro sul luddismo, il movimento che più si è battuto contro la rivoluzione industriale, lo studioso americano Kirkpatrick Sale scrive: «I dibattiti televisivi e i siti Internet stanno a dimostrare che sono in molti a comprendere e condividere gli obiettivi di Unabomber». La rivista ”New Yorker” va anche oltre: «E pluribus Unabomber, c’è un po’ di Unabomber in ognuno di noi». C’è nel movimento che contesta la globalizzazione e le manipolazioni genetiche. C’è in chi non crede allo sviluppo compatibile o che il problema della fame nel mondo possa essere risolto con gli organismi geneticamente modificati. C’è in Ted Kaczynski, che continua a scrivere: «Se oggi si muore di fame in Africa è colpa dell’invasione della tecnologia che ha distrutto la loro cultura. Aiutarli non vuol dire rubargli indipendenza e schiavizzarli. Le biotecnologie potrebbero ridurre certi problemi a medio termine, ma poi ce ne sarebbero altri, anche peggiori. Ce lo insegna la storia dello sviluppo tecnologico. E a questo punto è meglio morire di fame che perdere la libertà». La sua visione è apocalittica. Non ci sono mediazioni, non ci sono mezze misure. «Hit where it hurts». Tutte le conquiste del vivere civile le ritiene inutili: «Costruire i rifugi per i senza tetto o aiutare gli anziani non è una attività rivoluzionaria». La sua diffidenza verso il ”sistema” è totale: «Negli anni Sessanta la gente è diventata consapevole che l’inquinamento era un problema serio. Quello che è stato fatto è solo un palliativo per ridurre la pressione sul sistema. La soluzione è lontana». C’è uno spettro sulla testa del detenuto 04475-046, un incubo che si chiama Organismi geneticamente modificati. Scrive per posta aerea: «La gente non è ancora dipendente, gli si può ancora far capire che attraverso le biotecnologie vengono cambiati i valori dell’umanità. E il sistema su questo non è ancora pronto a difendersi». A chi pensa che la soluzione possa essere fare propaganda tra i contadini o il boicottaggio di certe aziende, oppone la sua strategia: «Bisogna lavorare per portare dalla propria parte gli scienziati e i dirigenti delle società coinvolte. I ricercatori sono difficili da rimpiazzare. Bisogna colpire dove fa male». Ma poi precisa: «Ovviamente in modo legale». Dopo aver passato quasi metà della sua vita nei boschi, dopo aver rinunciato a tutto, anche se siamo nel Terzo Millennio e i computer sono di quinta generazione, si fanno innesti di cellule staminali e la clonazione non è più un tabù, il professor Kaczynski sogna di fermare l’orologio della Storia e tornare alle origini. «Ci saranno malattie e salute, pance piene e morti di fame, odio e amore, fratellanza e rivalità etniche, guerra e pace, giustizia e oppressione, violenza e gentilezza, libertà e schiavitù, miseria e benessere. Ma ci sarà un mondo in cui una cosa chiamata libertà sarà almeno possibile, anche se qualcuno potrebbe non possederla». Fabio Poletti