Il Messaggero 02/03/2006, pag.11 Roberto Gervaso, 2 marzo 2006
Don Augusto. Il Messaggero 2 marzo 2006. Gentile Dottor Gervaso, la seguo con interesse da anni. So che ha frequentato, a parte Indro Montanelli, tanti grandi giornalisti del passato
Don Augusto. Il Messaggero 2 marzo 2006. Gentile Dottor Gervaso, la seguo con interesse da anni. So che ha frequentato, a parte Indro Montanelli, tanti grandi giornalisti del passato. Sa riconoscere, a distanza di tanti anni, chi parlava di lei e di Montanelli in questi termini: «Degli amici che mi restano, l’uno è quello che ho da più vecchia data; l’altro, quello che ho dalla data più recente. Tutti e due hanno il dono di piacere, di farsi voler bene. Indro è un conversatore straordinariamente brillante. E Robertino, che è di circa trent’anni più giovane, promette di non essere da meno»? Sono sicuro che ricorderà l’autore, che vi voleva bene, e che è morto in una clinica romana la sera del 31 dicembre 1981. Abitava in viale XXI Aprile, a Roma: non lo dimenticherò mai. stato per me un faro, una guida. Michele Narcisi -Tortoreto (Te) Augusto Guerriero, o Ricciardetto, non lo dimenticherà mai lei e mai lo dimenticherò io. Anche per me è stato un faro, una guida, oltre che un generosissimo amico. Se fra me e Montanelli c’erano ventotto anni di differenza, fra me e don Augusto ce n’erano quarantaquattro. Me lo presentò Indro nello scorcio del 1962, quando dalla redazione milanese del Corriere della Sera mi trasferii a quella romana. Montanelli mi presentò Guerriero nell’ufficio di corrispondenza del giornale, in via della Mercede 37. Don Augusto era alto, solenne, con una sparuta chioma bianca, la pelle del viso bianchissima e una pappagorgia che avrebbe fatto invidia a Spadolini. Indossava uno splendido doppiopetto grigio di Caraceni e una sobria cravatta in tinta. Ai polsini della camicia, anche questa di grande fattura, gemelli dorati e, al polso, un vecchio Rolex. Camminava a fatica per una vecchia artrosi e si aiutava con un bastone di mogano dal pomo argentato. Parlava con un forte accento meridionale, ma il suo napoletano non era quello popolare, plebeo, sguaiato del rione Sanità, né quello aristocratico, stucchevole, spocchioso della nobiltà decaduta del Sud. Era il dialetto del borghese, di buona educazione e di ottima cultura, amabile e autorevole. Ricciardetto, curiosissimo, pettegolissimo, spiritosissimo mi prese a benvolere e la sera stessa m’invitò, con Indro e Colette, a cena in un famoso ristorante del centro. Montanelli, come al solito, ordinò una fiorentina e un piatto di fagioli; Colette, sempre a dieta, un’insalata mista e una scaloppina di vitello. Io, un risotto e due uova al tegamino con tartufi. Don Augusto, l’anfitrione, due carciofi in pinzimonio e una mozzarella in carrozza. Gli piaceva ascoltare, ma anche parlare e la sua conversazione era uno scintillio di aneddoti sfiziosi e pruriginosi, di sapide indiscrezioni, di battute al fulmicotone. Io tacevo, e anche Indro e Colette ascoltavano. Il discorso cadde su una celebre dama, amica dei miei tre amici, che io non conoscevo. Don Augusto aveva saputo, ignoro da chi, che metteva le corna al marito, gran possidente umbro, con un affascinante avvocato romano. La vittima diceva di avere dubbi sulla fedeltà della moglie, ma nessuno di questi dubbi avevano preso corpo. Qualcuno, forse lo stesso Guerriero, gli consigliò di far pedinare la fedifraga, profittando di un suo viaggio a Parigi per assistere alle sfilate di moda e rinnovare il guardaroba. Il barone la fece seguire per tre giorni, quanto durò la permanenza nella Ville Lumière, da un investigatore privato. Al ritorno, il detective presentò al nobiluomo un circostanziato rapporto di quel che aveva visto e sentito: «Sua moglie, caro barone, mercoledì andò a Fiumicino, prese l’aereo e, dopo circa due ore, sbarcò a Parigi. L’accolse un uomo alto, elegante, abbronzato, che la prese sottobraccio e l’accompagnò a una limousine nera. Io salii su un taxi e dissi al conducente di seguire la vettura con sua moglie e lo sconosciuto. Giunti al Ritz, i due scesero e, di lì a poco, scesi io. Si avviarono verso la hall, lui ritirò la chiave della camera 204 e salì in ascensore con sua moglie. Io mi sistemai in quella accanto, provvidenzialmente libera. Le due stanze erano divise da un muro e da una porta chiusa a chiave, ma dal buco della serratura potevo vedere quel che succedeva nella camera 204. Alle nove, entrò il cameriere con una succulenta cena propiziatrice. Alle undici e dieci sua moglie andò in bagno e uscì con un baby-doll molto sexy. L’accompagnatore era in vestaglia di seta. Si misero a letto e lui spense la luce. Il resto glielo lascio immaginare». «To’, il solito, atroce dubbio», commentò il barone. Raccontando il finale, don Augusto scoppiò in una tale risata che un boccone di mozzarella gli andò di traverso. Impallidì e, portandosi le mani alla gola, con un filo di voce, gemette: «Soffoco, soffoco, muoio». Per fortuna, al tavolo accanto, c’era un medico che riuscì a rianimarlo, facendogli inghiottire l’indigesto grumo bianco. Ho raccontato questo aneddoto perché era il preferito di don Augusto che, dall’aldilà, se esiste, si farà una gran risata. Ma su di lui e sulla nostra amicizia tornerò. Personaggi come Montanelli sono rari; come Ricciardetto, rarissimi. Roberto Gervaso