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 2006  marzo 02 Giovedì calendario

Grossi, l’antiaustriaco che tradì l’amico Porta. Corriere della Sera 2 marzo 2006. Quello di Tommaso Grossi non è certo un nome noto al grande pubblico

Grossi, l’antiaustriaco che tradì l’amico Porta. Corriere della Sera 2 marzo 2006. Quello di Tommaso Grossi non è certo un nome noto al grande pubblico. Eppure è stato uno dei maggiori scrittori del nostro Romanticismo ed ebbe attestati di stima non solo da illustri amici come Carlo Porta e Manzoni. Quando nel 1826 uscì il suo poema I Lombardi alla prima crociata, qualcuno scrisse che «il rumore» che provocò «fu così grande, da temere che ne andasse a soqquadro l’intera repubblica letteraria»: e in effetti con le sue 3.500 copie risultò l’opera letteraria con la più alta tiratura del tempo. A proposito della novella in versi Ildegonda, che sarebbe stata salutata da De Sanctis come «il solo fiore del Romanticismo italiano», il Rovani scrisse che «cavò le lagrime ai begli occhi di tutta la penisola». Quando poi Grossi si dedicò al romanzo in prosa, il suo Marco Visconti (1834) ebbe traduzioni immediate in francese, in inglese, in tedesco e in spagnolo, nonostante le dure reprimende dei puristi e dei classicisti. Eppure quattro anni dopo, con il matrimonio, Grossi avrebbe appeso la penna al chiodo. Aveva solo 48 anni. Era nato nel 1790 a Bellano, nel Lecchese, e sarebbe morto nel ’53. Dal ’22 si era stabilito in contrada del Morone a Milano, in casa del suo maestro e migliore amico, Alessandro Manzoni, dove sarebbe rimasto per sedici lunghi anni, fino alle nozze. Ora che esce il suo Carteggio 1816-1853 (a cura di Aurelio Sargenti, Centro Studi Manzoniani e Insubria University Press, due volumi per un totale di 1.075 pagine) risulta ben chiara la personalità di questo poeta in dialetto e in lingua, prosatore e infine notaio dal ’37, ma pur sempre punto di riferimento della borghesia lombarda e della società letteraria. Lo dimostra la fitta rete di corrispondenze, di cui Sargenti ricostruisce puntualmente i risvolti, le relazioni, i nomi, tra i quali spiccano, oltre al Porta e al Manzoni, D’Azeglio, Giusti, Berchet, Rossari, Cantù, Monti, Cherubini. Le piste che si possono percorrere sono tantissime. Quella manzoniana è già stata ampiamente arata (da Dante Isella e dalla sua scuola soprattutto): la stretta collaborazione e la confidenza tra i due sono testimoniate da moltissime lettere di lavoro e dai toni spesso scherzosi delle medesime. Si leggono anche in filigrana le vivissime discussioni dell’«avanguardia» letteraria del tempo. Grossi ha il carattere «caro e buono» del confidente ideale. In gioventù aveva frequentato la Cameretta, cioè il giro di amici del Porta, di cui ammirò come nessun altro il «talent inscì foeura de misura». Forse inizialmente fu questa ammirazione a indurlo a scrivere versi in dialetto, tra cui La Prineide, un poema satirico che rievoca il linciaggio del ministro delle Finanze del Regno d’Italia Giuseppe Prina nel 1814. E che in veste di visione si presenta come un violento atto d’accusa contro il governo austriaco: Stendhal la definì «la migliore satira che mai la letteratura abbia prodotto nell’ultimo secolo». Il componimento ebbe una fortuna clandestina immediata in forma anonima e manoscritta, e scatenò la feroce istruttoria austriaca. I sospetti caddero subito su Carlo Porta, che venne convocato dalla polizia e aspramente rimproverato per l’imprudenza e il «poco savio contegno». Ma furono perquisite le case di molti personaggi in odore di sedizione, tra cui anche l’abate Carlo Alfonso Pellizzoni. La promessa di Porta alla polizia, ma anche a se stesso, di dedicarsi a «studi meno pericolosi» non verrà mantenuta a lungo. L’amico Grossi, nel frattempo, non fa una gran bella figura: per ben due volte nega la paternità della Prineide, sostenendo di averla «avuta per strada da un certo Francesco Viglezzi», fratello di un suo compagno di studi, poi vistosi accerchiato dalle indagini, dopo aver subito una perquisizione e dopo aver passato qualche giorno in camera di sicurezza tra minacce e altri interrogatori, confessa, aggiungendo però che la circolazione anonima aveva aggiunto espressioni ingiuriose di cui lui non era responsabile. La vera paternità del poema dialettale è rimasta a lungo incerta, e la sua notevole qualità poetica ha fatto pensare, fino ad anni recenti, che si trattasse davvero di un’opera di Porta. Ora però l’attribuzione al Grossi viene ulteriormente confermata da un paio di lettere del Giusti: quelle degli anni ’44 e ’45 in cui il poeta toscano allude alla lettura della Prineide («una vera gemma di doppio valore per me») come motivo di simpatia per Tommaso. Una copia dell’opera, per altro, gli fu inviata dalla moglie dello stesso Grossi. Anche Grossi dunque alla fine fece atto di contrizione al cospetto della polizia austriaca e avrebbe poi confidato al Cherubini che la sua Musa «è morta di paura nelle fasce». Sargenti aggiunge che l’episodio della Prineide «ebbe un peso determinante nel suo comportamento futuro e contribuì a far tramontare la stagione della sua produzione dialettale». Grossi avrebbe pagato a caro prezzo quell’episodio non solo per la sua carriera di scrittore ma anche per quella professionale, specie quando si sarebbe trattato di acquisire la nomina a notaio. Per ottenere la quale decise di rivolgersi ai buoni uffici di un magistrato trentino, Antonio Salvotti, noto come «bestia nera» dei liberali per aver celebrato i famosi processi del 1821, tra cui quello contro Pellico. Due lettere, del ’40 e del ’41, allo stesso Salvotti ricordano l’imbarazzante richiesta di raccomandazione. Una debolezza tutto sommato perdonabile. Anche per un combattente come Grossi, che al ritorno di Radetzky a Milano pensò bene di riparare a Lugano per oltre un mese. Forse anche per la sua influenza di notaio, Grossi ebbe tra i suoi amici e corrispondenti molti e molti intellettuali del tempo. Che gli chiesero aiuto per questioni varie. D’Azeglio si affidò al suo aiuto per la stipula dei contratti editoriali e per la vendita dei quadri, oltre che per le beghe del suo fallito secondo matrimonio con Luisa Blondel. Manzoni, oltre ad averlo come uomo di fiducia su problemi di carattere letterario e linguistico, ricorse a lui anche per faccende private. Per esempio, quando si trova nei pasticci a causa di un figlio Filippo, il terzogenito un po’ scapestrato. Durante le Cinque giornate Pippo viene arrestato dalle truppe di Radetzki al Broletto, dove è andato a iscriversi alla guardia civica. Da lì viene trasferito a Kufstein con altri ostaggi che poi verranno scambiati con prigionieri austriaci. La deportazione finisce però per essere fatale alle finanze di Filippo, che accumula debiti su debiti. Che farà don Lisander? Ricorrerà al suo amico. Il quale non avendo potuto assumersi in prima persona «l’impegno di servirlo», chiede aiuto a Giacomo Beccaria, consigliere di Governo per l’Istruzione pubblica sotto la dominazione austriaca, «se mai avesse una tale somma da disporre...». Il caso si riproporrà nel ’50, quando Manzoni allude a delle «citazioni» conseguenti ai debiti contratti da Pippo. Il «dolore» dello scrittore per «la fatale disposizione di Filippo a spendere straordinariamente più di quello che poteva» comporta «lo scapito della riputazione» familiare e gli ingiusti «giudizi del mondo». Della tempra che gli riconoscevano gli amici, sono testimonianza le lettere del Porta toscano, Giuseppe Giusti, tanto caro a quei «ghiotti buongustai» della lingua che erano i suoi amici lombardi, pronti a «sgangherarsi dalle risa» leggendo le sue rime burlesche. Giusti, nell’aprile 1848, invitando i lombardi a resistere sulle barricate, aveva eletto il Grossi a simbolo della rivolta contro gli austriaci culminata nelle Cinque Giornate: «Non ti so dire lo stupore, la gioja, l’ammirazione che hanno destato nell’animo di tutti i grandi fatti di Lombardia (...). Bravi Lombardi! Noi, la libertà, l’abbiamo trovata per la strada, voi ve la siete guadagnata davvero; noi, al più, abbiamo liberato noi stessi, voi avete liberata l’Italia». Non ditelo ai leghisti, potrebbero montarsi la testa... Paolo Di Stefano