Panorama 09/03/2006, pag.84-85 Alessandro A. Mola, 9 marzo 2006
L’Inno di Mameli? Non è di Mameli. Panorama 9 marzo 2006. Niente da fare. Neppure con la sedicesima legislatura l’Italia ha un inno ufficiale: quello di Goffredo Mameli era e rimane provvisorio
L’Inno di Mameli? Non è di Mameli. Panorama 9 marzo 2006. Niente da fare. Neppure con la sedicesima legislatura l’Italia ha un inno ufficiale: quello di Goffredo Mameli era e rimane provvisorio. Adottato, infatti, come semplice inno militare in sostituzione della Marcia reale sabauda, il 12 ottobre 1946 (quattro mesi dopo la partenza del re Umberto II per l’esilio), da un provvedimento d’urgenza del governo di Alcide De Gasperi, l’inno era rimasto per circa mezzo secolo di storia repubblicana senza un ruolo e una definizione istituzionale precisi. Tanto che nel settembre 2002 alcuni deputati della maggioranza, fra i quali Agostino Ghiglia (An), presentarono una proposta di legge di un solo articolo: «La Repubblica italiana riconosce l’ Inno di Mameli quale inno ufficiale della Nazione». La formulazione non era felice: l’inno non è «della Nazione», bensì dello Stato. Ma non era difficile rimediare. I proponenti pensavano di avere il vento in poppa. Dall’elezione alla presidenza della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi stava rivalutando Risorgimento e simboli dell’unità e dello Stato: altare della patria, tricolore e, appunto, l’inno. Il 10 gennaio 2003 Ghiglia presentò alla stampa lo stringato disegno di legge, sicuro di andare subito in porto con decisione bipartisan e benedizione dal Colle. Invece no. Solo il 17 novembre 2005 il forzista Luciano Falcier lo illustrò alla commissione Affari costituzionali del Senato. Poi calma piatta. La discussione del disegno di legge comparve nell’ordine del giorno del Senato alla vigilia dello scioglimento delle Camere, il 10 febbraio. Ma altri provvedimenti erano ritenuti più urgenti e l’ Inno di Mameli è rimasto al palo. Con una serie di conseguenze quantomeno curiose, a partire dal mondo sportivo. Per esempio, gli azzurri premiati alle Olimpiadi di Torino non solo non sapevano di cantare, sul podio, un inno che è rimasto provvisorio, ma ignoravano pure che, con ogni probabilità, l’autore non è affatto quello che avevano imparato a conoscere sui banchi di scuola. Tradizione vuole che l’inno sia stato scritto nell’autunno 1847 da Goffredo Mameli. Ma chi era costui? Di famiglia nobile, nacque a Genova il 5 settembre 1827. Il nonno, il cagliaritano «don» Antonio Vincenzo, nato nel Palazzo di Corte, il 7 maggio 1784, venne riconosciuto cavaliere e nobile da Vittorio Amedeo III, re di Sardegna. Intrapresi gli studi nel collegio genovese dei padri scolopi (le Scuole Pie, fondate dallo spagnolo San Giuseppe Calasanzio), Goffredo progredì regolarmente sino a 15 anni. Il 29 giugno 1843 venne alle mani con il diciottenne Giuseppe Lullin e fu sospeso dagli studi. Li riprese il 15 novembre 1845. Nell’agosto 1846 fu ammesso al primo anno di legge. E qui arriviamo al primo fatto interessante. Cioè a un particolare stranamente taciuto dai suoi biografi, inclusi Anton Giulio Barrili, che per primo ne pubblicò le poesie, Giosue Carducci e Cesare Abba: a metà settembre 1846 Goffredo fu condotto da padre Raffaele Ameri al collegio scolopico di Carcare, presso Cairo Montenotte (Savona). Carcare ebbe allievi illustri, dall’economista Pietro Sbarbaro a Luigi Einaudi, presidente della Repubblica. Si ambientò bene, come padre Ameri scrisse al confratello Muraglia. E Goffredo stesso il 9 settembre 1846 lo confermò a Giuseppe Canale. Proprio a Carcare Mameli frequentò padre Atanasio Canata (1811-1867), un intellettuale di grande spessore culturale sul quale vale la pena di spendere due parole. Nativo di Lerici (La Spezia), Canata aveva temperamento focoso. Autore di prose e tragedie, scrisse poesie, nel 1889 raccolte in due volumi. I suoi versi grondavano cristianesimo liberale e amor di patria. Ispirato da Vincenzo Gioberti, Canata scommetteva sull’indipendenza e l’unione degli italiani. Infatti nei suoi componimenti ricorrono tutti i materiali che troveremo presenti nel canto nazionale (attribuito a Mameli) e che fa riferimento a fatti del 1846: la sanguinosa repressione austriaca dei polacchi in Galizia e il festeggiamento di Balilla a Genova (settembre 1846).
Ma torniamo a Goffredo. Il 10 novembre 1847 il baldo studente mandò il canto nazionale all’amico compositore Michele Novaro, che l’ebbe mentre era a Torino, in casa del democratico Lorenzo Valerio. Con il cuore in tumulto Novaro si gettò a musicarlo. Corse a casa, scrisse le note di quello che dovrebbe quindi essere l’«Inno di Novaro». Concitato, versò la lucerna, danneggiando il foglio dell’amico, perduto per sempre. Del canto abbiamo un paio di versioni. Osservate senza paraocchi apologetici, risultano copie di un originale non pervenuto. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di Genova, inizia: «Evviva l’Italia, l’Italia s’è desta...». Nella seconda copia (Museo del Risorgimento di Torino) si legge invece a sinistra «Fratelli d’Italia...» e, a destra, nella stessa pagina, «Evviva l’Italia, dal sonno s’è desta...». Fra le prime edizioni a stampa (Modena, 1848), quella della tipografia Andrea Rossi precisa: «Parole di Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)». In attesa della visita di leva, da Novi Ligure il 15 ottobre 1847, cioè proprio quando avrebbe scritto il canto nazionale, Goffredo spiegò alla madre il suo ideale di vita: «Mangio per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno ». Rifiutò l’arruolamento e si fece surrogare. Poi partì volontario, accorse a Roma. Nella difesa della Repubblica il 3 giugno 1849 fu colpito da un commilitone alla gamba sinistra (mai chiarito se con baionetta o proiettile). La ferita suppurò. Giuseppe Mazzini benedicente, l’arto venne amputato. Il 4 luglio i francesi entrarono in Roma. Il 6 Goffredo morì. Padre Ameri gl’impartì il viatico e ne curò la sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano. Ma è a questo punto che dobbiamo tornare a padre Canata. A leggere infatti una sua opera importante, Inferno, Purgatorio e Paradiso d’Italia, ci si accorge che il poeta lamenta un duplice disinganno: la rottura dell’unità d’azione di papisti e patrioti e il furto di una poesia. Parlando di sé in terza persona scrisse: «A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto;/ ma venali menestrelli/ si rapian dell’arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore/ si rinchiuse il pio cantore». Il testo è chiaro: Canata accusa «venali menestrelli» di avergli rubato il testo del canto. Con chi ce l’ha? Quasi certamente con Mameli. Che il professore non accusa apertamente del furto per pietà cristiana e per rendere omaggio al conforto religioso chiesto dal giovane nel momento della morte, visto che il patriota veniva dipinto come massone anticlericale. Del resto, dovette pensare Canata, l’inno parla da sé. Esprime un pensiero adulto: «Uniamoci, amiamoci;/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore». Parole di pedagogo. Nella versione conservata alla Società economica di Chiavari, il canto inizia «Oh Figli d’Italia...». Non è voce di un ventenne scapestrato e sgrammaticato com’era Mameli. La vera storia dell’inno resta dunque da scrivere. Alessandro A. Mola