Panorama 09/03/2006, pag.111-112 Marco De Martino, 9 marzo 2006
La maledizione del pugno che uccide. Panorama 9 marzo 2006. Il vecchio campione si aggrappa alle corde, ma stavolta è solo per vedere meglio
La maledizione del pugno che uccide. Panorama 9 marzo 2006. Il vecchio campione si aggrappa alle corde, ma stavolta è solo per vedere meglio. Sul ring c’è Dimitri Salita, ucraino, uno dei migliori superleggeri del mondo, che combatte contro un giovanissimo irlandese che ha il sorriso e la foga di Russell Crowe nel film Cinderella man. Intorno a loro le facce sudate, gli occhi neri e le cicatrici che rendono famosa la Gleason Gym di Brooklyn, la palestra dove si allenavano Muhammad Ali e Mike Tyson. La stessa dove Hilary Swank si è preparata per Million Dollar Baby. Il vecchio campione lancia un bacio verso il cielo: ci sono posti peggiori di questo in fondo al viale del tramonto. A un bambino che glielo chiede Emile Griffith fa vedere l’anello riservato ai pochi eletti che fanno parte della Hall of fame, l’olimpo dei campioni. A un pugile italoamericano racconta dei tre incontri con Nino Benvenuti che a fine anni Sessanta buttarono giù dal letto l’Italia: «Io credo di averne vinti almeno due, ma gli arbitri me ne hanno dato uno solo: niente di male, con Nino è nata una grande amicizia ». Potrebbe continuare a parlare delle sue sfide con Carlos Monzon o dei suoi sei titoli di campione del mondo, ma quella che Griffith sta per raccontare ora è una storia più drammatica e segreta. la storia di una vita passata a nascondere la sua sessualità e di 14 maledetti secondi di rabbia mostruosa, di un insulto sibilato prima del match e di un avversario messo al tappeto. Per sempre: «Uccisi Benny ”the kid” Paret, ma non perché mi aveva chiamato gay: volevo solo vincere un altro incontro. Quella sera però ha cambiato per sempre la mia vita». A quella sera è dedicato Ring of fire, un documentario che in pochi mesi è diventato oggetto di culto per gli amanti della boxe. E sempre a quella maledetta notte la Paramount ha deciso di dedicare un film che si annuncia come il Brokeback mountaindello sport: è sempre difficile per un atleta ammettere la propria omosessualità, figuriamoci allora quando sei nero e pugile. Allora era il 1962 e negli Stati Uniti solo scrittori come Allen Ginsberg e Gore Vidal dicevano apertamente di essere gay. Emile Griffith allora di anni ne aveva solo 23 (oggi 68) e agli incontri andava accompagnato dalla madre che sempre indossava uno dei cappellini disegnati dal figlio. Poche ore prima dell’incontro che gli avrebbe cambiato la vita Emile Griffith era andato alla pesa nervoso. Era la terza volta che incontrava Benny «the kid» Paret: la prima gli aveva tolto il titolo mondiale, la seconda se lo era visto riprendere ai punti. Ma a innervosirlo non era tanto la paura dei pugni, piuttosto le parole di Paret, che l’ultima volta che si erano incontrati gli aveva dato apertamente dell’omosessuale: «Maricon» gli aveva detto in faccia. E Griffith temeva che lo avrebbe ripetuto. Aveva cercato di stargli alla larga, ma all’improvviso Benny era apparso alle sue spalle, gli aveva pizzicato il sedere e aveva ripetuto davanti a tutti: «Hey maricon, prima o poi acchiapperò te e tuo marito». Gil Clancy, l’allenatore di Griffith, aveva dovuto trattenere il suo campione: «Risparmia la tua rabbia per stasera». Quella sera al Madison square garden di New York c’erano quasi 8 mila persone e al dodicesimo round il ring era avvolto del fumo delle sigarette. Griffith colpì l’avversario con un destro micidiale, poi un altro, e un altro. A rivedere la scena è chiaro che a quel punto Benny aveva già perso conoscenza. Ma l’arbitro sapeva di avere di fronte un incassatore straordinario e non fermò l’incontro. In 6 secondi Griffith assestò 18 cazzotti micidiali: «Credo che abbiamo appena assistito a un omicidio gay» sussurrò al suo vicino Pete Hamill, giornalista e scrittore. Mentre Paret, già in coma, veniva portato fuori dall’arena in barella, Griffith dichiarò: «Sono orgoglioso di essere di nuovo campione mondiale, spero che Paret si ristabilisca presto». Dieci giorni dopo Paret sarebbe morto. Il senatore Rockefeller chiese che la boxe fosse messa al bando, lo stesso fece il Vaticano. Qualcuno cercò di mettere in relazione l’insulto e la morte, ma non era facile: quando un giornalista del New York Timesspiegò che «maricon » in spagnolo vuole dire omosessuale, l’articolo venne bloccato. E invece di gay venne scritto «anti-uomo». Per i giornali fu più comodo mettere la morte in relazione a un incontro che Paret aveva combattuto tre mesi prima, finendo al tappeto, soffrendo forse di un’emorragia cerebrale mai diagnosticata. Ma per Griffith non fu una grande consolazione. Anni prima di ucciderlo lui con Benny aveva giocato a basket nei campetti di Harlem, dove erano cresciuti insieme. Dopo la morte di Paret per Griffith iniziano lunghe notti piene di incubi: nel più ricorrente Emile vede un posto vuoto in una palestra, si siede ma poi capisce che la voce che glielo ha indicato è quella di Paret. A quel punto deve godersi il match con un uomo morto. Griffith non ricorda facilmente. Oggi è afflitto da demenza. E a momenti di grande lucidità alterna vuoti spaventosi. Ma per anni si è confidato con Ron Ross, il suo biografo, che dopo decine di conversazioni si è convinto che tra l’insulto e la rabbia sul ring ci fosse solo un nesso indiretto: «A fare arrabbiare Griffith non fu sentirsi chiamare gay, ma che quella parola fosse usata in modo denigratorio». Secondo chi lo conosce, il campione è un tipico bisessuale: pochi anni dopo si sarebbe sposato, e una volta venne trovato dal suo allenatore a letto con due bionde a Las Vegas. Ma di recente Griffith ha cominciato a frequentare un’associazione gay di New York, che a marzo vorrebbe che si dichiarasse in pubblico e si trasformasse nel primo omosessuale dichiarato tra i campioni della boxe. L’antitoro scatenato: «Se Griffith lo farà, spero sia solo perché ne è veramente convinto» dice Ross. Dopo quella notte maledetta, Griffith combatté per altri 15 anni e vinse altri titoli, ma si portò sempre dentro la paura di fare del male all’avversario. Una volta abbandonato il ring, ha lavorato come secondino in un riformatorio, ed è lì che ha conosciuto Luis, lo ha adottato come figlio e talvolta lo chiama Emile. stato Luis che ha incitato Griffith a collaborare al documentario Ring of fire, alla fine del quale il vecchio campione incontra per la prima volta Benny Paret jr, il figlio dell’uomo che gli appare negli incubi. Ne è nata un’amicizia, rinsaldata dal fatto che Benny junior e Luis sono stati assunti all’ufficio posta della stessa azienda. Il figlio dell’omicida e il figlio della vittima ora sono grandi amici: strana la vita. Luis accompagna Emile dappertutto, ma ogni tanto il vecchio campione scappa. Spesso finisce nei bar gay attorno a Times square: «Sono gli unici posti dove la gente non mi riconosce, dove posso evitare le risse» si giustifica. Oggi tutti possono dichiararsi gay, ma per un pugile è ancora difficile ammetterlo. Lo stesso Griffith che dice di essere gay 10 minuti dopo lo nega: «Guarda la mia carriera e dimmi se ti sembra quella di un omosessuale» dice a Panorama. Sono passati quasi 45 anni, ma dentro la mente del vecchio leone del ring è ancora il 1962. Marco De Martino