Ugo Tramballi Ventiquattro, n.7/2002, 7 marzo 2006
In India gli assassini di Gandhi preparano una guerra di religione, Ventiquattro, n.7/2002 Il Sabarmati quel giorno era in secca
In India gli assassini di Gandhi preparano una guerra di religione, Ventiquattro, n.7/2002 Il Sabarmati quel giorno era in secca. Condensata nella foschia, l’aria calda rendeva la Satyagraha Ashram ancora più misteriosa, nonostante la sua apparente semplicità. Dentro quella veranda spoglia e aperta verso il fiume, diventata ormai un museo, non c’erano che un vecchio arcolaio, una stuoia e un cuscino bianco: sono le cose che un giorno del 1930 Mohandas Karamchand Gandhi lasciò, alzandosi dopo avere tessuto e riflettuto a lungo, per iniziare la sua prima marcia contro la tassa sul sale imposta dagli inglesi. Nel silenzio di quell’Ashram, Gandhi aveva pensato le sue teorie sulla disobbedienza civile e la non violenza. Aveva riflettuto su come liberare pacificamente l’India dal colonialismo. E su come trasformare in una Nazione quel mosaico di popoli e di religioni, quell’accozzaglia di Stati principeschi indù e musulmani che gli inglesi avrebbero lasciato. «Unità nella diversità» sarebbe stata la formula che i Primi ministri avrebbero preso dal Mahatma, la Grande Anima, e applicata per governare India. Ma quello stesso giorno di qualche anno fa, fuori dalla Satyagraha Ashram - ad Ahmedabad, nello Stato del Gujarat - due risciò a motore stavano bruciando in mezzo alla strada. La polizia aveva sedato da poche ore un nuovo scontro indù-musulmano che aveva fatto qualche decina di morti. Sono massacri ricorrenti. Gli indiani li chiamano ”comunalismi”. Quella volta tutto era cominciato perché un giornale indù aveva pubblicato un fumetto intitolato ”Maometto l’idiota”. I musulmani si erano vendicati attaccando alcuni negozi. E gli indù avevano bruciato un quartiere musulmano. Quella formula, ”unità nella diversità”, continuava faticosamente a tenere. Ma governare l’India era evidentemente molto più complesso di quanto sperasse l’idealismo gandhiano. Pochi giorni più tardi nell’Uttar Pradesh - 170 milioni di abitanti, lo Stato più popoloso del Paese, cuore della tradizione induista con una minoranza di una trentina di milioni di musulmani - venni invitato ad assistere a una manifestazione politica. Alla periferia di Agra, in un grande spiazzo dove la domenica la gente gioca a cricket, decine di migliaia di persone partecipavano a un comizio. Ciò che colpiva non era solo il modo ordinato, in piedi e in lunghe file militari, con cui ascoltavano (quando si ritrovano, per tradizione, gli indiani tendono ad avere un comportamento anarchico), ma anche i loro abiti tutti uguali: camicia bianca, pantaloni corti color kaki e in testa il Gandhi cap, la bustina trasformata in simbolo nazionale dal Mahatma e da Nehru. Seppure questa fosse bianca mentre il copricapo di quella folla era marrone scuro. Era un’adunata del Rss, il Rashtriya swayamsevak sangh, l’Associazione nazionale dei volontari. «Volontari di cosa?», chiesi al mio accompagnatore, un deputato del Bjp, il partito nazionalista allora all’opposizione. «Della fede, della Nazione indù, della più antica civiltà umana» rispose. Poiché in cinquemila anni non è mai accaduto che il subcontinente si chiamasse diversamente da India, quei fondamentalisti erano convinti che una tale continuità dovesse pure significare qualcosa. Che il suo collante non fosse l’unità in quella immorale promiscuità etnica e religiosa imposta da Gandhi, da Nehru e dai loro eredi. Che la formula fosse, e dovesse essere, diversa: «Un popolo, una Nazione, una cultura». L’hindutvà, traducibile in induità - e non l’indianità atea e socialista del Congress, il partito che ha creato l’India moderna - è il tratto fondante della patria che sognano. «Se guarda alla storia, se pensa all’invasione islamica del XIII secolo - spiegava il deputato del Bjp - i musulmani dell’India non sono che degli indù, convertiti». Troppi, per sperare che prima o poi tornino a credere al pantheon variopinto delle divinità induiste: i musulmani sono il 14 per cento della popolazione, non c’è Paese al mondo che abbia così tanti cittadini di fede islamica. Ma al deputato i numeri non sembravano interessare. Dai pantaloncini da avanguardisti coloniali dei manifestanti di Agra spuntavano gambe storte e rinsecchite. La carenza di bicipiti era generale e tra i meno giovani il ventre debordava dalla cintura. Ma quell’adunata era comunque impressionante: come se il mostro del nazionalismo fosse emigrato ad Agra, poiché quegli incubi e quelle esperienze non appartengono al bagaglio storico degli indiani, senza mostrare un minimo segno di pudore. Un’adunata che ricordava quelle viste in altri tempi e altre latitudini, che richiamava i momenti più bui della storia europei dei Novecento. «Jai Shri Rama», lunga vita a Rama, gridarono tutti, prima di ascoltare il comizio di Lal Krishna Advani, ”anima” del Bjp, il Partito del popolo indiano. Era la principale forza d’opposizione, ma già si respirava aria di vittoria. Nato nel 1980, il Bjp aveva partecipato alle sue prime elezioni politiche quattro anni più tardi, ottenendo due seggi. Nel 1989 ne aveva conquistati 86, che erano diventati 120 nel ’91. E nel ’98, con 250 deputati, è effettivamente andato al Governo. Sfruttando l’evidente crisi del Partito del Congresso, ormai incapace d’interpretare la sintesi indiana, quella ”unità nella diversità” sempre più difficile da realizzare. Il Bjp è il volto istituzionale del movimento nazional-religioso, lo strumento politico dei Rss, la sua versione in doppio petto. Per semplificare una lunga storia ormai ramificata in scuole, organizzazioni territoriali, istituzioni culturali e religiose, basti dire che tutto è cominciato nel 1925. Con la nascita, appunto, del Rss, che ora può contare su 25mila sezioni locali. Nel 1964 è stato creato il Vhp, il Consiglio mondiale degli indù, l’organizzazione cultural-religiosa il cui compito è sostanzialmente quello di fornire una dignità storica alle divinità e alle vicende dell’induismo, che invece è una fede mitologica. Prima del Bjp, costituito nel 1980, c’era un altro partito induista, il Bjs: nel 1977 era entrato nel Governo guidato dal Janata, che per due anni aveva interrotto il monopolio del Congress e della famiglia Nehru-Gandhi. Il Bjp rispecchia le due anime dell’induismo politico: quella estremista di Advani e la moderata di Vajpayee. Se nel 1998 il partito non avesse optato per la seconda, Atal Behari Vajpayee, saggista, poeta e politico dalla grande retorica, non sarebbe mai diventato Primo ministro. Senza quella scelta, l’elettorato di centro e le classi emergenti delle città non avrebbero mai votato Bjp. Né si sarebbero alleati molti dei 23 partiti che ora governano con quello di Vajpayee in coalizione pletorica ma tutto sommato funzionante. Resta tuttavia il paradosso che oggi l’india è governata da un partito nato dal movimento che nel 1948 fu il responsabile dell’omicidio di Gandhi. Com’è un paradosso che Vajpayee sia un Primo ministro moderato che tenta di modernizzare l’India e Advani sia il ministro degli Interni estremista che sostiene la ricostruzione del tempio di Ayodhya. Vicenda, quest’ultima, sulla quale il Governo mette in gioco la propria sopravvivenza e l’India un pezzo del proprio futuro. una stravaganza che riforme economiche del XXI secolo e fachiri seminudi che incitano a bruciare le moschee si contendano la stessa scena. Ed è un paradosso che un Paese con un tasso di alfabetizzazione del 50 per cento, dove per ogni mille abitanti ci sono solo quattro computer e mezzo, nasconda nei suoi arsenali da 65 a 90 testate nucleari. Uno scenario nel quale occupa una posizione centrale Ayodhya, nell’Uttar Pradesh, dove sorgono quattro delle sette città sante dell’induismo. A un certo momento il Vhp cominciò a sostenere che la moschea di Babri, del XVI secolo, era stata costruita dall’imperatore moghul Babur esattamente dove, in un’epoca senza tempo, era nato il dio Rama. Ayodhya ha insomma rappresentato uno dei primi tentativi concreti, certo il più importante, di traghettare la religione induista dal mito alla storia. E il primo esperimento sul campo dell’uso politico e settario di una fede che invece è tradizionalmente tollerante. Il Vhp prese quindi a rivendicare la proprietà del luogo e il Rss a invocare la distruzione della moschea, portando da varie parti del Paese pezzi del tempio indù che avrebbe dovuto essere costruito al suo posto. Nel 1989 la questione cominciò a farsi seria. Il 6 dicembre 1992 un esercito di karsevaks, i volontari religiosi, superò le deboli difese della polizia - la quale peraltro stava più dalla parte dei manifestanti che con il Governo - e prese d’assalto la moschea distruggendola a picconate. E negli scontri che nei giorni successivi scoppiarono in tutta l’India ci furono 3mila morti. Il Governo fece arrestare i responsabili dell’attacco, allontanare gli estremisti dalle macerie della moschea e impedì l’avvio dei lavori del tempio. Ma il movimento nazional-induista aveva centrato il suo obiettivo: su Ayodhya l’India era ormai divisa. L’Islam, considerato fino ad allora parte dell’essenza nazionale, pilastro di quell’equilibrio creato da Gandhi, diventò una religione ”straniera”, come quella cristiana. Con sikh, giainisti e buddisti gli estremisti indù sono più tolleranti. Aspettando il giorno in cui sarebbe cominciata la costruzione del tempio al dio Rama, i fondamentalisti non sono peraltro stati con le mani in mano. Hanno sostenuto che a Mathura, vicino ad Ayodhya, un’altra moschea sorge dove sarebbe nato Krishna. E che a Varanasi, la più santa delle città indù, i musulmani hanno contaminato il luogo in cui è nato Shiva. Perfino il Taj-Mahal di Agra, il bianco simbolo degli innamorati di tutto il mondo, il mausoleo costruito dall’imperatore mogul Shah Giahan per la giovane moglie, capolavoro dell’arte islamica, sorgerebbe su un sito sacro dell’induismo. Quello che prima di Ayodhya era inaccettabile anche solo pensare, è diventato legittimo proclamare. I tabù che preservavano l’unità nazionale dal caos, sono diventati meno intoccabili. Dal 1998 il Bjp è al potere e offre di sé un’immagine moderata. Ma non è chiaro se il suo vero volto non sia invece quello delle maschere esagitate dei karsevaks, con la fronte fasciata da una bandana color zafferano e i coltelli rituali che tagliano l’aria bollente del Paese. Se cioè l’India più forte sia ancora quella che da 5 millenni assorbe conquistatori, popoli e religioni. O il potere non stia passando nelle mani di un’India etnica e intollerante. «è venuto il momento che questo Governo guidi i sentimenti dei suoi sostenitori indù», annuncia Tarun Vijay, direttore del giornale del Rss. «Che vantaggi avremmo altrimenti dall’essere al potere?». La questione posta da Vijay costringe tutti a farsi un’altra domanda, spaventosa e purtroppo attualissima: quella in mano all’India diventerà un’atomica indù da contrapporre a quella islamica pakistana, in una disastrosa guerra nuclear-religiosa? Intanto i Fondamentalisti indù lavorano in fianchi le istituzioni indiane minandone il sistema educativo. Vidya Bharti, una cellula del Rss, ha aperto in tutto il Paese oltre 20mila scuole induiste, con due milioni e mezzo di allievi. Le sedi sono soprattutto nelle zone rurali, dove prima dell’arrivo del Rss le scuole non esistevano neppure. Come i fondamentalisti islamici di Hamas, che a Gaza spendono ogni anno dai 40 ai 70 milioni di dollari in infrastrutture sociali per i profughi palestinesi, anche l’induismo gioca sulla povertà e sulla disperazione dell’India. Eccolo, l’ultimo paradosso: pochi Governi hanno spinto così tanto l’acceleratore delle riforme come quello di Vajpayee e nessun partito ha mai tollerato una simile diffusione dell’estremismo indù. Il problema è capire se arriveranno prima le riforme o la rivoluzione color zafferano. Ugo Tramballi