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 2006  marzo 04 Sabato calendario

«Andai a Salò, voterò Rosa nel pugno». Corriere della Sera 4 marzo 2006. «Di cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo

«Andai a Salò, voterò Rosa nel pugno». Corriere della Sera 4 marzo 2006. «Di cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo. Perché "dalla parte sbagliata"? Perché era la parte perdente? C’è una cosa, una sola, che mi pesa. Aver sentito talora la mia scelta per la Repubblica sociale, che mai rinnegherò, come un freno per fare sino in fondo quel che avrei voluto, a fianco della sinistra. Voltare gabbana, mai. Le stesse cose che mi avevano spinto a Salò, l’anticlericalismo, l’idea sociale della Carta del lavoro e della partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, l’istinto dell’anarchia e della libertà, nel dopoguerra mi spingevano a impegnarmi con la sinistra». Racconta Giorgio Albertazzi che «dopo il 25 aprile, in quel clima di tiro al piccione, riparai ad Ancona, dove c’era una forte tradizione anarchica. Il punto di riferimento era Titta Foti, leader della Fai, Federazione anarchica italiana, che dopo avermi sentito parlare di politica mi disse: tu sei dei nostri. Scrivevo versi sul suo giornale, L’Agitazione, misi in scena pièces sul primo maggio e sui repubblicani spagnoli, sotto il falso nome di Glauco G. Albe, per sfuggire alle reti dell’epurazione. Poi qualcuno finì per pescarmi. Rimasi in carcere un anno e mezzo, sino all’assoluzione. In cella i fondatori del Msi presero contatto con me, ma non ne volli sapere. Il 18 aprile, se avessi potuto, avrei votato socialista. Stimavo Almirante, figlio di attori e a sua volta molto dotato, ma con i missini non ho mai avuto a che fare, anzi loro contestarono un mio spettacolo dedicato a Lorca».  questo il vero Albertazzi; che però rivendica la sua continuità con il ragazzo di Salò. «Posso dire di aver fatto il Sessantotto. Ero a Genova, per la prima mondiale del Fu Mattia Pascal, adattato al teatro da Tullio Kezich, regia di Luigi Squarzina. Era una stagione di lotte – la Finsider in crisi, la Pettinatura Biella chiusa – e io mi ci buttai. Andavo nelle fabbriche occupate a recitare poeti latinoamericani, che ogni due versi evocavano la rivoluzione. Partecipavo ai cortei con le bandiere rosse. Squarzina, che era comunista, mi consigliò di non esagerare. Quando la consigliera in quota Dc del teatro stabile fece una battaglia per cacciarmi, gli operai Finsider marciarono sul teatro al grido "giù le mani da Albertazzi". Poi cominciarono le lotte dei radicali. Mi impegnai nelle campagne per il divorzio e l’aborto, giravo i paesi, tenevo discorsi. Fui anche eletto in Parlamento ma rinunciai al seggio. Per questo ho sofferto quando mi tolsero la cattedra di letteratura teatrale all’università di Torino, per il veto di Guido Quazza. Un uomo è ciò che ha fatto, ma anche ciò che pensa. Erano di sinistra tutte le persone importanti della mia vita, da Luchino Visconti ad Anna Proclemer, lo sono i miei amici di oggi, dalla mia assistente al presidente del teatro di Roma che dirigo». Per chi voterà il 9 aprile? «Credo per la Rosa nel Pugno. Anche per fronteggiare l’invadenza della Chiesa: diffido di tutte le religioni, le considero fonte di ogni guerra, compreso questo confronto pericolosissimo tra Occidente e Islam». «Forse, se fosse stato vivo mio nonno Ferdinando, socialista, mi avrebbe convinto a non rispondere al bando della Rsi. Ma il nonno era morto di polmonite, nel ’34. Mio padre era un fascista tiepido. Zio Alfio invece era un fascista della prima ora; massacrato dai comunisti a Firenze nei 45 giorni di Badoglio. Ma non fu questo a spingermi verso Salò. Dirlo sarebbe comodo, ma insincero. La verità sulla scelta di un ragazzo della mia generazione non è stata ancora detta, e non può essere capita fuori da quella temperie. Non ha senso chiedere oggi: perché sei andato con i criminali? Per chi come me leggeva Salgari e l’Avventuroso, all’astuzia di Ulisse preferiva la forza di Achille, era cresciuto nel mito di Baracca e di D’Annunzio, dei trasvolatori dell’Atlantico e dei calciatori bicampioni del mondo, il fellone era Badoglio che scappava. Che ha senso ricordare oggi: la parte legale non era quella? Per chi come me aveva il mito non tanto del Duce ma di Ettore Muti ucciso dai badogliani, di Italo Balbo abbattuto nel cielo della Sirte, degli eroi della Folgore disfatti a Birel Gobi, la "parte legale", l’Italia, era quella. E io ho combattuto per l’Italia». «Non amavo Mussolini per la sua retorica. Come non amo Berlusconi per la sua pompa, pur se riconosco che è un grande attore. Amavo il D’Annunzio di Fiume e degli amori alla Capponcina, la villa vicino a cui abitavo. Da ragazzo ero innamorato di zia Livia, la sorella di mia madre. Zio Alfio era suo marito. Gli chiedevo: cos’è il fascismo? Rispondeva: il fascismo è l’Italia. Dopo il 25 luglio andarono a prenderlo in quattro, lui aveva una rivoltella in tasca ma non la usò, lo massacrarono di botte, agonizzò per giorni sputando a pezzi i polmoni. Io avevo 18 anni, tiravo di boxe, ero forte e veloce. Partigiani in giro non ce n’erano, e devo dire che non ne ho mai visti, se non nella primavera del ’45. Non voglio generalizzare, ma certo molti divennero partigiani in quanto renitenti». Altri grandi attori andarono a Salò, da Vianello a Salerno. «Di Dario Fo non saprei. Con gli amici occorre delicatezza; e Dario è un amico. Non ho mai osato porgli l’argomento». Albertazzi è molto attento alle sue parole. Anni fa, racconta, è accaduto che fossero strumentalizzate. «Militanti di Rifondazione mi contestarono chiamandomi "fucilatore non pentito". Io non mi pento di quanto ho fatto; a maggior ragione, non mi pento di quanto non ho fatto. E io non ho fucilato nessuno. Non sapevo nulla dei campi di sterminio ma già allora non avevo simpatia per i tedeschi, pur discendendo da una famiglia di lanzichenecchi scesi dalla Pomerania; semmai, per gli americani. Ma non è vero che eravamo sottomessi ai nazisti. Tenevamo una piccola parte del fronte, lungo il Foglia, pressati dai polacchi di Anders e dalla Quinta Armata. Una notte passai le linee per andare a salutare i miei a Firenze; avrei potuto restare ma prevalse il senso di lealtà. Tornai. Qualche giorno dopo i tedeschi ci consegnano due disertori, addestrati in Germania, inquadrati nell’esercito della Rsi, fuggiti e ripresi. Avrebbero potuto fucilarli subito. Invece li processarono. Uno fu assolto, l’altro condannato a morte. Tergiversammo, nella speranza di risparmiarlo. Il comandante del reggimento, Zuccari, ordinò: o lui, o voi. Il plotone d’esecuzione fu comandato da un maresciallo, mi pare si chiamasse Manca. Io non ebbi un ruolo, però c’ero, come sottotenente ero il più alto in grado: il comandante della compagnia era ferito, il sostituto assente. Al processo per salvarmi spostai la data della mia incursione a Firenze. In seguito ho riconosciuto che quel giorno ero lì. Ma questo non fa di me un fucilatore». Il teatro comincia dopo la scarcerazione, quando Albertazzi torna a Firenze. «Mio padre e mio fratello avevano passato notti durissime, legati, terrorizzati: "Il vostro Giorgio è stato impiccato", dicevano. Ma erano sopravvissuti. Fu Zeffirelli, mio amico fraterno, a presentarmi a Visconti». l’inizio di una storia straordinaria di successi, e di un rapporto intenso ma difficile con il grande regista. «Diceva: mi resterai soltanto tu. Non andò così. Eppure abbiamo avuto un rapporto strettissimo. Visconti mi stimava molto, mi scrisse di avermi visto impallidire in scena come riusciva solo alla Duse. possibile che fosse anche un po’ innamorato di me. Mi chiese se fossi disposto ad andare oltre l’amicizia, e io non ebbi obiezioni. Ma lui era come intimorito dalla mia intelligenza. Forse chiedeva agli uomini quel che Sartre chiedeva alle donne: sii bella e taci. Io non mi considero un attore ma uno scrittore mancato. Un grande attore deve essere un po’ stupido, nel senso etimologico di provare stupore». Sono molti i libri non finiti di Albertazzi, uno doveva intitolarsi per sfida «Io criminale». Sta per uscire invece una raccolta di poesie, «Diverso Inverso». Della candidatura del ’94 con An non ama parlare. «Accettai per stima di Fini, uomo dal grande futuro. Mi mandarono a Tradate e mi dissero che dovevo battere l’ex sindaco. Lo feci, ma vinse il candidato leghista. Non fu un’esperienza felice». E Prodi? «Abbiamo bisogno di maestri più che di professori. Sogno un governo di sole donne. Al Quirinale, Emma Bonino. Ci salverà la bellezza femminile. La persona che amo di più al mondo, Pia de’ Tolomei, è un angelo, un tramite tra l’uomo e Dio». Albertazzi non ama che si parli delle «sue donne», né di amanti; semmai, di amate. «Non sono un sultano con l’harem. vero però che non riesco a lasciarle. Mi faccio lasciare. A volte sono stato lasciato. Non ho memoria del sesso, mentre le donne si ricordano tutto. Io trattengo alcuni flash. Mi ricordo ad esempio di un corpo nudo dormiente, di me che indugio se coprire o meno la linea dei fianchi; poi esco, e al ritorno anziché lei trovo un biglietto, "vita mia". No, non posso dire chi era». Ognuna è libera di riconoscersi. Aldo Cazzullo