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 2006  marzo 06 Lunedì calendario

Janacek, il genio che copiò le voci della natura. Corriere della Sera 6 marzo 2006. Dal suo nazionale Eliso, giacché nulla prova che la morte, col livellare, affratelli, l’ombra magna di Leos Janacek non si dorrà se per abbozzare un ritratto del compositore incominceremo da uno dei più grandi artisti del Novecento, Totò

Janacek, il genio che copiò le voci della natura. Corriere della Sera 6 marzo 2006. Dal suo nazionale Eliso, giacché nulla prova che la morte, col livellare, affratelli, l’ombra magna di Leos Janacek non si dorrà se per abbozzare un ritratto del compositore incominceremo da uno dei più grandi artisti del Novecento, Totò. Nella vita anch’egli autore, beninteso di modeste canzonette, interpreta in uno dei suoi più bei film la parte di un musicista d’avanguardia, il maestro Scannagatti. Il titolo della sua «più bella Sinfonia», La foca imbalsamata, non sconverrebbe a un Surrealista francese né a un esponente d’una «scuola nazionale» slava o ugro-finnica. Il Maestro crea. «Fa’ ch’io m’ispiri alle voci della Natura», e ordina alla cameriera di aprirgli la finestra affacciante sul giardino. Litiga col cognato. «Vuoi finirla sì o no?», gli dice costui, ed egli s’arresta per notare in intervalli musicali l’inflessione interrogativo- minatoria. Dunque, secondo Scannagatti, la melodia nasce dalla parola articolata in discorso; e dall’imitazione delle «Voci della Natura». Janacek, moravo (1854-1928), imponente autore di Drammi Musicali e fra l’altro della Katia Kabanova (1921) che domani verrà rappresentata per la prima volta alla Scala, la pensava all’incirca così. «Tutti i misteri melodici e ritmici della musica trovano spiegazione nella melodia e nel ritmo dei motivi musicali del linguaggio parlato». A tale conclusione arrivò dopo lunghi studî di etnofonia, collazione delle grida dei venditori ambulanti, dei ritmi e preordinati schemi che scandiscono gl’immemoriali lavori rurali. Oggi questo sa di positivismo. La nascita della musica va ricompresa nell’idea di «urlo originario», di Urschrei, sia che vada intesa nel senso di Federico Nietzsche, sia che l’antropologia musicale la veda come l’espressione della consapevolezza del nostro progenitore, centinaia di migliaia di anni fa, di essersi distaccato dal mondo animale e insieme per quella angosciosa di condividerne la natura. Musica e linguaggio parlato nascono come una sola cosa; allo stesso modo che il cacciatore emette l’urlo della belva da uccidere per diventare quella e rendersi quindi invulnerabile. L’urlo si ritualizza vieppiù: ecco l’( in)cantus. Gli artisti che pongono scoperte scientifiche loro, vere o presunte, a base della creazione, hanno sempre un che di fastidioso e dilettantesco. Non appartiene alla categoria Schönberg. Questi sarebbe un gigante pur se fosse morto dopo Erwartung e sembra aver teorizzato il sistema compositivo «seriale» come un onere da accollarsi. « Lei il famoso compositore Schönberg?», chiese un ufficiale al soldato volontario nella I Guerra. «Qualcuno doveva pur esserlo», rispose il Maestro. « toccato a me». Motivi di antipatia per, e di giudizi di dilettantismo su, Janacek, non si fermano qui. Egli riconsiderò un effettuale processo storico, che noi ribattezzeremo «integrazione progressiva della dissonanza nell’ambito della consonanza di base». Ciò vale nel senso della sovrapposizione di terze in triadi le quali divengono accordi. Negli ultimi anni dell’Ottocento l’orecchio integra nella consonanza di base le settime (quadriadi) e le none (pentiadi): Ravel, Debussy. Si analizzi l’armonia del Motivo della Rosa nel Rosenkavalier di Strauss! Ma il processo dura per lunghi secoli a partire dalla polifonia popolare dell’Alto Medio Evo. Janacek credette fosse, illimitato, per conquistare l’intero spazio sonoro. L’orecchio umano attribuisce un senso solo a determinate combinazioni melodiche e armoniche, essendo così strutturato a priori. Di là non vuole, giacché non può, analizzare. Janacek si riteneva, per giunta, inventore dell’abolizione delle gerarchie e funzioni accordali, ossia teorizzava qualsiasi accordo poter collegarsi a qualsiasi altro. Personaggi come lui sembrano aver bisogno dell’incomprensione e del rifiuto; egli non ne ebbe a sufficienza secondo i suoi più o meno occulti desiderî. V’è un dio anche per gli scocciatori dell’umanità. Questi imperscrutabilmente volle che difetti d’impostazione tali da render utopistica e priva di efficacia la creazione di Janacek si trasformassero in punti di forza, in leve sulle quali egli si innalza. La più pericolosa per lui delle sue inani teorie è il rifiuto dei processi costruttivi della musica europea dal Rinascimento in poi, quasi l’Europa avesse per secoli congiurato al fine di tagliare in musica la lingua all’identità slava. In luogo, egli ricorre a una pazientissima intelaiatura di gesti musicali interiettivi che costruisce l’azione dall’esterno. Perciò quel dio volle anche che una figura dotata dei connotati tipici del falso genio fosse un genio vero, e precisamente uno dei più originali e forti drammaturgi musicali del Novecento, oggi in tutto il mondo eseguito e popolare quasi quanto Puccini. Nel caso della Katia Kabanova, ma non solo in lui, il dio si avvale di una forza chiamata eterogenesi dei fini, ben nota ai filosofi della Storia. Uno crede di andare a Bombay e si ritrova alla Madonna di Pompei. Uno si crede un talento e invece è un genio. Uno costruisce a tavolino complicate strategie acché la sua musica sembri inaudita e di avanguardia; adopera metri irregolari e studiatissime asimmetrie ritmiche; ricorre alle speciosissime concatenazioni accordali sopraddette: Janacek è genio nonostante se stesso. Esistono obbiettive leggi psico-fisiche presiedenti la percezione musicale: la nostra percezione semplifica e risistema quanto il Moravo ha voluto con ingenua malizia complicare. La Storia, ed è il caso di chi ascolta oggi, colloca in retta prospettiva, abolendo particolari superflui, cio che il presente vede distorto. In questo raro caso l’assioma «Veritas filia temporis» è valido. La musica drammatica di Janacek risuona immediatamente comprensibile e familiare a qualsiasi europeo. Risuona, costruzione a parte, come prodotto di un musicista coltissimo influenzato in parte da Mascagni (non parlo certo solo della Cavalleria, ma dell’alchimista armonico e timbrico di Iris e Isabeau), Puccini e Giordano, in parte da Debussy, Ravel e Florent Schmitt (si tende troppo a dimenticare quest’ultimo genio), in parte da Richard Strauss. A momenti asperrimi, ove il canto s’inerpica o s’impaluda in zone ostiche (imputazione di «Verismo» onde Janacek, unico, sorte indenne), s’alternano slanci lirico-melodici, spesso affidati all’orchestra, recitante un ruolo autonomo dalle voci, non dal testo verbale di che esse sono portatrici, di una tale intensità e bellezza da essere inconfondibili e solo di quest’Autore. Ognuno di loro è ciò che Hans Pfitzner denomina un Einfall, qualcosa di piombato dall’alto, come un miracolo. Il noioso socialista scientifico è un pànico, un cultore d’una materialista religione della Natura, da lui sentita con forza arcana. Lo sfondo di drammi «veristi» crolla, di là da esso scorgiamo energie cosmiche dalle quali sortiamo e nelle quali torneremo. Ma la vita sociale si svolge quasi solo in conflitto con loro. Onde la realtà obbiettiva del Male. L’acqua è realisticamente il luogo ove Katia si getta essendo isterica e incapace di tollerare una situazione di fatto: una colpa adulterina da lei confessata perché rosa fino all’estremo dallo sguardo d’una odiosa vecchia, la Suocera, la società costituita secondo un ordine innaturale e costrittivo in conflitto con tali energie. Giacché quello di Janacek è un realismo magico, la donna isterica e perversa, invece di morire per auto-punizione, attraverso l’acqua precipitante dal cielo e scorrente fra le rive si svincola dall’ordine del Male e rientra nel gran libro del Tutto, nelle perpetue fini e rinascite. Paolo Isotta