La Stampa 06/03/2006, pag.1-30 Giulia Zonca, 6 marzo 2006
Io, gigante gay nell’inferno del football. La Stampa 6 marzo 2006. Il Far West ha sdoganato i gay, il football no, più omofobico dei machi in camicia a quadri e stivaloni, resiste anche se non si capisce bene a cosa
Io, gigante gay nell’inferno del football. La Stampa 6 marzo 2006. Il Far West ha sdoganato i gay, il football no, più omofobico dei machi in camicia a quadri e stivaloni, resiste anche se non si capisce bene a cosa. Tutto lo sport evita accuratamente l’argomento, se ne vergogna a prescindere. Non esistono outing da campioni, al massimo da pensionati, da ex che hanno lasciato gli spogliatoi e possono permettersi una vita normale. Quella tra armadietti, magliette sudate e fatica condivisa è strettamente etero e chi preferisce altro è pregato di stare zitto. La federazione inglese ha provato a sostenere una campagna di sensibilizzazione, un discreto questionario del tutto anonimo inviato a ogni club. Domande generiche, del tipo: presumete che qualche vostro tesserato possa essere omosessuale? Ne avete mai parlato? Avete mai avuto la sensazione che qualcuno fosse sofferente per questioni sessuali? Era rivolto agli allenatori, ma poteva rispondere chiunque. Non ne è tornato indietro neanche uno, omertà assoluta, anzi una società per sbaglio ha risposto con una mail destinata ad altri. Testo stupefatto: questa roba possiamo ignorarla, vero? Funziona così, e non è tanto una questione di immagine quanto di gruppo. Troppa intimità tra i calzettoni sporchi e le esultanze abbracciate per accettare differenze in squadra. Se lo stesso questionario fosse stato sugli stupri di branco o violenza domestica avrebbe avuto più risposte, solo che parlava di gay e ben prima che «Brokeback Mountain» si presentasse sul tappeto rosso degli Oscar. Quel film ha agitato parecchi animi bruti, persino Esera Tuaolo, una montagna d’uomo che giocava a football americano, si è sentito in dovere di raccontare un’altra volta la sua storia. Lo ha già fatto, confessioni più che pubbliche, la prima a «Road Sport tv» poi da «Oprah» con un libro sotto braccio, una biografia intitolata «Solo in trincea». L’ha scritta per dimostrare che anche chi è grosso, muscoloso e trova adolescenti veneranti ad aspettarlo in ogni albergo può essere gay. Ora ha deciso di portarlo in giro e di mettersi a disposizione di chi non ha il coraggio. Lui non l’ha avuto, nove anni di professionismo costretti in serate alcoliche dove la sbronza era l’unica via di fuga. Cinque diverse squadre e mai una stanza dove si sentisse a proprio agio. Pilastro delle linee difensive, ha iniziato nei Green Bay Packers, Nfl, un posto di cattivi abituati alle gomitate e alle facce dure, un posto dove Tuaolo, allora ventiduenne, aveva tutte le carte per stare. «In realtà ho scelto per contrasto, avevo doti atletiche e tendenze effeminate, sono cresciuto in una famiglia molto conservatrice, da piccolo sentivo sermoni che condannavano l’omosessualità. Da grande ho deciso di condannarla io». Se sei forte, veloce, insuperabile, se spaventi gli avversari ed esalti il pubblico, se per professione sei uno tosto, nessuno potrà fare illazioni sulla tua vita privata. Esera Tuaolo ha risolto così, fingendo, e solo quando tornava alle Hawaii si concedeva notti in bar fuori mano con un nome falso a proteggerlo. Un’identità troppo posticcia. Un giorno è tornato agli allenamenti è ha visto la sua faccia formato poster appesa a un muro. Grandi pacche dai compagni, complimenti dallo staff «e io ero in totale panico. Lì è cominciata la mia paranoia, ero riconoscibile e qualunque amante occasionale poteva sbucare dal passato e mandarmi in prima pagina». Si è imbottito di tranquillanti e ha aumentato il giro di sbornie e le concessioni alle fan pronte a tutto. «Appena ne vedevo una nei paraggi, la baciavo davanti al mondo, cercavo una copertura». Sapeva già allora di non essere un caso isolato, nel libro descrive un paio di occasioni in cui si è trovato inequivocabilmente davanti a colleghi criptogay e in un caso è arrivato fino a un bacio. «Poi abbiamo fatto finta di nulla entrambi, lui si è trasferito e non ci siamo mai cercati». Oggi Tuaolo vive con Mitchell Wherely, hanno adottato due figlie e fanno tournée a raccontare come sono riusciti a sopravvivere. Anni di finta amicizia, mesi di clandestinità e un outing improvviso e necessario. Solo a carriera archiviata. Tuaolo si è ispirato a un antenato, Dave Kopay, anche lui giocatore di football. Dieci anni tra San Francisco 49ers e Detroit Lions più un finale ai Green Bay Packers. Si è ritirato nel 1973 e molti già sapevano che era gay, tempo dopo lo ha spiegato. Anche lui ha scritto un libro, ma è stato considerato un bizzarro hippy che voleva sfidare il mondo della Nfl. Lo definivano «stravagante». In questi giorni è diventato ambasciatore dei Giochi Gay di Chicago (dal 15 al 22 luglio) e Tuaolo ha ammesso di aver trovato molta forza nell’idea che qualcuno ci fosse già passato. «Sì e quando sono uscito allo scoperto è stato un periodo faticoso. Solo guardando il film ho davvero pensato: cavoli, ero conciato così. Non può essere che nel 2006 molti ragazzi restino schiacciati solo perché lo sport è indietro. Io sono solo un esempio, al massimo uno con cui parlare, ma è questo che manca a quell’universo di professionisti, una strada che già esista». Tuaolo ha diviso la copertina dell’autobiografia in due: sopra la sua faccia serena e il nome bello grosso. Sotto una vecchia immagine di gioco, casco in testa, lui che esce da una mischia e la prima parola del titolo: Alone. Non è riuscito a mescolare i due mondi neanche con la grafica, uno sta sopra, uno sotto, e teme di estinguersi in caso di contaminazione. Se voleva stanare i retrogradi, Ang Lee ha sbagliato soggetto per «Brokeback mountain»: i cow boy hanno mentalità molto più aperte. Giulia Zonca