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 2006  marzo 02 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 6 MARZO 2006

Una bella dama, potenzialmente seducente ma terribilmente svogliata, incapace di attrarre i pretendenti e troppo indulgente nei confronti dei propri vizi capitali. Giorgio Ferrari: « la fotografia dell’Italia come risulta dall’ultima rilevazione Istat, la quale assegna una sostanziale crescita zero per l’anno 2005 (nel 2004 era stata di un misero 1,1%) a fronte di un rapporto deficit-Pil che ha raggiunto il 4,1%. L’occupazione (scesa dello 0,4% con un vistoso calo del comparto agricolo) rimane stabile, mentre crescono le esportazioni e diminuisce - se pure di pochissimo - la pressione tributaria. In altre parole quello 0,0 che funge da termometro della nostra crescita non cambia granché il quadro di un’Italia galleggiante sulle proprie rendite di posizione e poco propensa a investire, a innovare, soprattutto a rischiare». [1]

Premesso che bisognerebbe cercare di misurare lo sviluppo «non più solo col pil, ma con un set di indicatori che ci dicano anche se cresce il benessere sociale e se migliora o peggiora la qualità della vita delle persone» (Aldo Carra) [2], «dai dati di contabilità nazionale emerge purtroppo il ritratto di un’economia in coma, non solo ferma nelle quantità, ma anche in probabile peggioramento nella qualità» (Mario Deaglio). [3] Luciano Gallino, autore dell’Italia in frantumi (Laterza): «Il nostro apparato industriale è messo male e quindi non c’era da aspettarsi altro. L’industria continua ad essere l’asse portante della nostra economia. Molti parlano di servizi ma dimenticano che nel nostro paese i servizi sono prevalentemente servizi alle imprese. inutile vendere illusioni, noi non siamo la Gran Bretagna, gigante dei servizi finanziari. Da noi anche l’informatica, la logistica e i trasporti sono legati all’andamento dell’industria». [4]

Torri gemelle, scoppio della bolla azionaria, guerra in Iraq, euro troppo forte, concorrenza cinese: di chi è la colpa della nostra crisi? Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi: «La performance molto migliore di altri Paesi europei alle prese con gli stessi inciampi non concede facili alibi. Il severo giudizio è confermato dall’unica consolazione di questi tempi: la ripresa che ha preso corpo nei mesi recenti è soprattutto trainata dall’estero, tanto che tutte le previsioni danno una crescita dell’Eurozona (e ancor più del resto del mondo) più vivace che in Italia». [5] La Spagna sta crescendo al ritmo del 3,4%. Ferrari: «La Gran Bretagna dell’1,8% mentre perfino la Germania - grande malata d’Europa fino a poco tempo fa - comincia a muoversi con un +0,9%». [1] Deaglio: «In molti altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia, si osserva un certo risveglio della produzione industriale mentre in Germania è avvertibile un miglioramento del clima economico; il contrasto è particolarmente stridente con i ”cugini” spagnoli, il cui ritmo di crescita si mantiene vivacissimo. Anche se un qualche ”rimbalzo” congiunturale è pur sempre probabile nei primi mesi del 2006, questo sicuramente non basterà a far diminuire il distacco dai nostri più dinamici vicini. La situazione di fondo non migliorerà da sola». [3]

Siamo nel pieno di un declino strutturale. Enrico Cisnetto: «Se è vero che questa legislatura ci ha consegnato una crescita di meno della metà della media europea, e lontana astralmente dall’andamento dell’economia americana e di quella cinese (che, non a caso, ci ha superato nella classifica mondiale), non era andata molto meglio nei cinque anni precedenti, che pur avendo consuntivato un +1,9% medio, ci hanno visto ugualmente distanti dai vecchi e dai nuovi competitor dell’era della globalizzazione». [6] Tito Boeri: «La Cina cresce, giusto? Dunque il made in Italy potrebbe esportare di più verso questo paese. Invece subiamo l’arrivo delle merci cinesi e basta. Altri ex malati d´Europa come Francia e Germania no. I problemi della mancata crescita italiana sono di tipo strutturale e nessuno li ha rimossi. Tantomeno questo governo. I servizi costano moltissimo alle imprese e non sono neppure di qualità. Poi non facciamo ricerca e dunque non creiamo prodotti competitivi. Risulta che dei migliori prodotti in diverse discipline segnalati dalle università italiane ad un panel di esperti stranieri, solo il 20-30% raggiunge l’eccellenza dei parametri internazionali. una desolazione». [7]

Nel decennio della Seconda Repubblica, l’Italia non è stata caratterizzata solo da una crescita mai così bassa dal dopoguerra in poi (la media dal 1996 al 2005 è dell’1,27%), ma anche da un ridotto incremento della produttività del lavoro, dalla perdita di quote rilevanti di commercio internazionale e da una sostanziale stabilità, con tendenza al reincremento, dello stock del debito pubblico, una volta venuto meno l’effetto benefico della riduzione internazionale dei tassi d’interesse. Cisnetto: «Nel periodo 1996-2000 l’attività produttiva è cresciuta di 0,7 punti percentuali in meno rispetto alla media di Eurolandia, mentre in quello 2001-2005 è cresciuta di mezzo punto in meno. Così come l’incremento della produttività del lavoro nei settori industriali soggetti alla concorrenza è stato dell’1% nel primo quinquennio e pressoché nullo nel secondo (a fronte del +4,3% e 1,9% francese, e del +3,2 e +2,6 tedesco)». [6]

La quota italiana del commercio internazionale è scesa dal 4,6% al 3,5 e poi al 2,7. Cisnetto: «Infine, i conti pubblici: senza i cinque punti di pil di spesa per interessi in meno - per i quali i nostri governi non possono vantare alcun merito - non solo non saremmo entrati nell’euro, ma avremmo già fatto bancarotta, visto che dalla metà del ’99 in poi il rapporto deficit-pil ha ripreso a crescere, come pure il il debito rispetto al pil negli ultimi due anni. E ora che i tassi hanno ripreso a salire, ecco arrivare il dato sul fabbisogno del primo bimestre di quest’anno - 10 miliardi, più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2005 - a dirci che la finanza pubblica andrà ancora peggio». [6]

Ristagno? Declino? Trasformazione? E quali sono state le implicazioni dell’unione economica e monetaria europea? Da anni queste sono le domande che vengono poste quando si analizzano i temi e i problemi dell’industria manifatturiera italiana. Un lavoro dell’Istituto di studi e analisi economica (Isae, centro di ricerca autonomo anche se vigilato dal ministero dell’economia e delle finanze) mostra che dal 2000 al 2005 l’Italia è, con la Gran Bretagna, il paese la cui industria manifatturiera è stata interessata dal cambiamento più intenso. Contrarian (rubrica del quotidiano finanziario ”MF”): «Dunque, sotto il ristagno c’è la trasformazione strutturale. Non è, però, un cambiamento che fa convergere la nostra struttura industriale con quella del resto d’Europa. Altri dati Isae evidenziano che dal 1995 (quando l’euro stava per essere varato) le strutture industriali europee hanno mostrato un processo di graduale divergenza reciproca». [8]

Dal 2000 la divergenza è aumentata. Contrarian: «Per l’Italia, in particolare, la differenza del nostro apparato manifatturiero da quello dei partner si è accentuata con il risultato che nel 2005 la nostra industria appare la più diversa, in termini di mix settoriale rispetto a quanto si verifica nel resto d’Europa. Abbiamo perso punti specialmente nei rami ad alto contenuto tecnologico, proprio quelli in cui il resto d’Europa è andato relativamente bene. Siamo andati particolarmente male nel made in Italy come il tessile, l’abbigliamento, il mobile. Spiegazioni? Un’analisi della Banca d’Italia si sofferma proprio sul made in Italy e punta il dito sulle politiche di prezzo seguite dalle imprese esportatrici. [...] La conclusione principale di politica industriale è che, con l’obiettivo di non ridurre i margini unitari di profitto, le imprese italiane non hanno difeso le proprie quote di mercato». [8]

Le opportunità dell’euro sono state sprecate. Galimberti e Paolazzi: «Uno spreco con due volti. Per l’economia reale, le grucce dei rimedi impropri che l’ingresso nell’euro aveva tolto per sempre (svalutazione, inflazione, spesa pubblica) non sono state sostituite dalle cure appropriate: liberalizzazioni vere, privatizzazioni vere, semplificazioni amministrative, difesa della concorrenza in tutti i cantucci più nascosti, taglio dei nodi gordiani che impediscono, con un groviglio di competenze ( dunque di irresponsabilità) di attaccare il deficit infrastrutturale del Paese. Gli interventi hanno agito invece sui sintomi, con il sostegno dei redditi (riduzioni fiscali, aumenti di pensioni, stipendi pubblici). Si è commesso l’errore fondamentale di credere che i problemi fossero di carenza di domanda e non di mancanza dell’offerta. Le poche risorse disponibili dovevano essere rivolte a oliare la ristrutturazione di un apparato produttivo la cui specializzazione era inadeguata alle sfide di una concorrenza globalizzata». [5]

La dimensione si sta rivelando un vincolo serio. Contrarian: «Specialmente in un contesto in cui il marketing e la distribuzione commerciale diventano elemento cruciale (a volte anche più importante delle economie di scala nel processo produttivo) nella competizione internazionale». [8] Pasquale Pistorio, vicepresidente di Confindustria: «L’innovazione è uno strumento per la crescita. E ormai, con la competizione globale, le aziende italiane hanno il dovere di crescere. Il 97,7% ha meno di 50 dipendenti, quasi il 90% meno di dieci. Per queste imprese è difficile andare all’estero. Bisogna mantenere l’agilità dei piccoli con la forza della dimensione di scala». [9]

E la grande industria? Contrarian: «Dalle discussioni sul Rapporto sulle liberalizzazioni di Società libera emerge una critica: negli anni 90 e nella prima parte del XXI secolo, invece di cogliere l’occasione delle privatizzazioni per ristrutturarsi (come avvenuto in Francia e Germania) è corsa alla ricerca della rendita negli ex monopoli pubblici. Ponendosi, con poche eccezioni, ai margini del vero cambiamento». [8] L’innovazione ha due facce. Pistorio: «Una riguarda il prodotto e il processo produttivo, l’altra i processi operativi delle imprese. I punti principali si possono sintetizzare in quattro pilastri: primo, l’informatizzazione, che deve essere diffusa in tutti i settori dell’impresa; secondo, la filosofia del quality management: occorre il coinvolgimento di tutto il management per la lotta agli sprechi, il miglioramento continuo, il focus sul cliente. Terzo, l’ambiente, che va visto come risorsa e non solo come un costo se si ottimizza un processo sostenibile si riduce l’impiego di energia e materie prime, con risparmio di costi. Infine l’internazionalizzazione: il mercato è globale, bisogna non solo vendere all’estero ma insediare una testa di ponte oltre confine, nei Paesi più promettenti». [9]

 più facile spiegare perché le cose sono andate male che indicare una ricetta per uscire dalla doppia crisi di crescita e di finanza pubblica. Galimberti e Paolozzi: «Ma è opportuno, ora che il Paese è chiamato alle elezioni, avanzare spiegazioni e indicazioni». [5] Stefano Micossi: «La discussione sulla politica economica nella campagna elettorale è piuttosto scoraggiante. I contendenti si inseguono nel promettere agli elettori denaro che non hanno, evitando accuratamente di parlare dei problemi difficili: gli squilibri della finanza pubblica, dove la spesa corrente è fuori controllo e il debito ha ripreso ad aumentare; la rigidità del mercato del lavoro, soprattutto nel settore pubblico; l’inefficienza dei grandi sistemi di pubblico servizio, giustizia, sanità, scuola e università; la mancanza di concorrenza». [10]

Dice Confindustria: le imprese hanno capito e stanno reagende. Pistorio: «Corrono. Purtroppo è il Paese a essere lento». Micossi: «Entrambi i poli rifiutano di riconoscere quello che è invece di macroscopica evidenza: che l’incapacità di crescere dell’economia italiana ha origine nel miserevole stato delle istituzioni pubbliche, nelle colossali distorsioni determinate dal dilagare del settore pubblico nell’economia, nelle protezioni accordate a piene mani a una miriade di piccoli interessi organizzati, senza curarsi degli effetti sulla crescita e l’occupazione. Insomma, la causa della stagnazione è nel settore pubblico, nella presenza abnorme della politica nell’economia; la debolezza del settore privato ne è solo lo specchio, la manifestazione degli effetti». [10] L’ultimo report di Global Insight prevede che quest’anno la crescita italiana non supererà l’1%. Giuseppe Turani: «E dall’1%, purtroppo, si fa presto a finire a zero (basta uno sciopero un po’ robusto o un qualunque altro accidente). Per il 2007 si annuncia una crescita italiana pari a appena l’1,2%. E nel 2008 si andrà più su di un soffio: 1,3%. Urge una svolta decisa». [11]

La prospettiva migliore sarebbe che gli italiani (e le forze politiche che li rappresentano e competono per il loro voto) si spaventassero davvero. Deaglio: «E dessero all’economia un ordine di priorità rispetto a quello finora riservato nelle politiche e nei programmi. Nella rimeditazione dei programmi economici occorrerebbe tener conto di tre principi guida. Il primo è che l’Italia non uscirà dall’imbuto in cui si è cacciata con una ”politica delle piccole cose” e deve dire basta ai provvedimenti-aspirina; non bastano ritocchi fiscali e piccoli bonus, occorre pensare in grande. Il secondo è che va ampliato l’orizzonte temporale dei programmi economici: non si può vivere alla giornata, occorre immaginare come potrebbe essere questo Paese di qui a dieci o vent’anni e ragionare in quest’ottica temporale più lunga. Il terzo è che non si può fare una frittata, come dice un noto proverbio inglese, senza rompere le uova mentre le forze politiche hanno la tentazione di presentare programmi che, forse in virtù di una bacchetta magica, accontentano tutti». [3]