Varie, 3 marzo 2006
CITTERICH Vittorio
CITTERICH Vittorio Salonicco (Grecia) 22 giugno 1930, Roma 2 agosto 2011. Giornalista. Decano dei vaticanisti. Nel 1945, profugo dalla Grecia, arrivò a Firenze dove si laureò in giurisprudenza e si formò nell’ambiente politico e culturale vicino a Giorgio La Pira, partecipando, fra l’altro, alla fondazione di due riviste cattoliche d’avanguardia. Appena laureato fu segretario di Padre David Turoldo, poi al “Giornale del Mattino” come cronista, inviato speciale e caporedattore. Nel 1959 accompagnò La Pira nel suo viaggio a Mosca e vi tornò in seguito per il giornale. Nel 1964 seguì per “L’Avvenire d’Italia” i lavori del Concilio Vaticano II e poi fu ancora a Mosca come corrispondente per la RAI. Dal 1993, dopo numerosi altri viaggi in tutto il mondo, si occupò di politica internazionale per il Tg1, di cui diventò direttore e poi responsabile dell’informazione religiosa • «Eravamo più di millecinquecento cronisti, provenienti da ogni angolo del mondo, per seguire il Concilio ecumenico Vaticano II. [...] L’evento, più di duemila vescovi riuniti ogni giorno a pregare e discutere nella Basilica di San Pietro trasformata in aula conciliare, ha lasciato una grande traccia nella storia del mondo. Anche nella mia piccola storia personale. Quando nel 1958 Pio XII morì e venne Papa Giovanni che, quasi per istinto dello Spirito Santo convocò il Concilio, mi trovavo ancora a Firenze per seguire, per conto del Giornale del mattino, uno dei fantasiosi “colloqui mediterranei” che La Pira, spes contra spem, riusciva a promuovere, riunendo ebrei, cristiani e musulmani che altrove si combattevano, nella ricerca di una “riconciliazione della famiglia di Abramo”. Il colloquio del 1958 era presieduto dal principe ereditario del Marocco, il futuro re Hassan II. Quando venne la notizia del malore mortale che aveva colpito Papa Pacelli tutti i presenti vennero invitati a pregare, ciascuno a suo modo. E all’annuncio della morte La Pira, a suo modo improvvisando, commentò: “E noi, adesso che cosa faremo? Con la nostra preghiera accompagneremo gli angeli che porteranno il Papa in Paradiso. E con la preghiera accoglieremo il nuovo Papa che verrà e sarà il Papa dell’Occidente e dell’Oriente, del Nord e del Sud ed estenderà a tutti i popoli la benedizione di Abramo”. Quasi un preannuncio di Papa Giovanni. Per il conclave il piccolo e battagliero giornale fiorentino dei miei esordi mi spedì a Roma. Fumata bianca, habemus Papam, Angelo Roncalli. E fui meno sorpreso di altri cronisti assai più esperti di me. Sempre da La Pira colsi il primo giudizio sul Concilio appena convocato. Lo avevo accompagnato a Mosca per il suo “ponte di preghiera e di pace fra il santuario occidentale di Fatima e il san tuario orientale di San Sergio”. Ripeteva che l’ateismo imperante da quelle parti sarebbe inevitabilmente caduto e invitava l’esterrefatto Krusciov a “tagliare il ramo secco dell’ateismo” se veramente voleva la coesistenza e la pace. E indicava proprio nel Concilio l’annuncio dei tempi nuovi. Ricordo le insistenze, soprattutto rivolte ai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa: “Il Concilio è il segno dei tempi di un’epoca nuova nella quale scompare la guerra, fiorisce la pace, emergono i popoli, si unifica il mondo, crollano le ideologie ed emerge ogni giorno di più sul mondo, quasi per illuminarlo, la Chiesa”. Una delle tante utopie lapiriane? Può darsi. Ma come negare, dopo le quattro sessioni conciliari e quarant’anni dopo, che la tendenza storica e religiosa di fondo del Concilio sia andata proprio in queste direzioni di “cosiddetta utopia”? Il Concilio, inoltre, ha portato un cambiamento decisivo nella comunicazione della Chiesa e nella Chiesa. Dalla seconda sessione in poi ne feci personale esperienza essendo passato a lavorare, a Roma, per L’Avvenire d’Italia e mentre, dopo i rigorosi segreti che avevano accompagnato la prima sessione, si passò a un’apertura che in quel tempo ci sembrò straordinaria. Sette gruppi linguistici informavano ogni giorno i cronisti su quanto accadeva nell’aula. Nel gruppo italiano, composto dal vescovo di Livorno monsignor Pangrazio (ossia da un “padre conciliare”), dal teologo Sartori e da padre Tucci de La Civiltà cattolica (oggi cardinale) si lavorò con rispetto delle esigenze di ciascuno, a cominciare dalla pubblica opinione. E si dette, mi sembra, un’informazione completa e corretta. Resta, nella memoria, la sola occasione che consentì anche ai cronisti di entrare nell’aula conciliare. Il ritorno di Paolo VI dal viaggio a New York per portare alle Nazioni Unite il messaggio di fondo “mai più la guerra”. L’esile Papa Montini che attraversa a piedi la navata della Basilica fra gli applausi. L’impegno preso. “Avendo noi parlato della pace alle Nazioni Unite, l’intera Chiesa si è impegnata ad essere operatrice di pace perché la parola data impegna...”. Il discorso del Papa all’Onu viene inserito fra gli atti del Concilio. Quasi a preludio del lungo pontificato di Giovanni Paolo II che, portando i nomi del Papa che ha indetto il Concilio (Giovanni) e del Papa che l’ha concluso (Paolo), ha portato anche a compimento, a cominciare dall’impegno a operare per la pace, tante “utopie” della straordinaria stagione conciliare. E c’era, in quel tempo, anche un giovane consulente ed esperto che accompagnava il cardinale Frings il quale aveva dato inizio, rifiutando gli schemi e documenti prefissati, al dialogo della Chiesa e nella Chiesa. Quel giovane teologo si chiamava Joseph Ratzinger. Benedetto XVI” (“Avvenire” 4/12/2005).