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 2006  marzo 03 Venerdì calendario

Chiude «the barber» di tutta Wall Street, La Stampa 3 marzo 2006 Sul sottofondo di Verdi, perché l’opera e la musica classica sono la colonna sonora del suo negozio, «Jerry the Barber» si lascia andare ai ricordi

Chiude «the barber» di tutta Wall Street, La Stampa 3 marzo 2006 Sul sottofondo di Verdi, perché l’opera e la musica classica sono la colonna sonora del suo negozio, «Jerry the Barber» si lascia andare ai ricordi. «Sono nato nella provincia di Avellino, 76 anni fa ad agosto. Dopo il militare ero andato a Roma, ma facevo la fame. Allora all’inizio degli Anni Sessanta scappai a New York». «I clienti dicevano: fai tu» Come un immigrato da Avellino sia diventato il barbiere di Wall Street è una scena da film: «Lavoravo in una bottega di Broadway, frequentata dai broker. Una mattina ricevetti una telefonata anonima a casa. Un certo Franco, che non ho mai conosciuto di persona, mi avvertiva che il barbiere della Borsa aveva bisogno di aiuto». Qui bisogna spiegare che Wall Street, fra i vari servizi offerti ai suoi dipendenti, garantiva anche il sarto e il tosatore. «Tre fratelli gestivano il negozio, ma uno era morto. Io mi presentai e mi diedero la sua sedia. Presi servizio il primo aprile del 1963 e non ho mai smesso». Allora il suo mestiere era più facile: «Io sono un barbiere classico, e i capelli all’Umberto andavano bene a tutti. I clienti mi dicevano: ”Fai tu”, e certe volte si facevano pure la pennichella mentre li servivo. Venivano una volta alla settimana e gli incassi era buoni. Poi sono arrivati i Beatles, i ragazzi sono diventati tutti capelloni, e il business è calato». I clienti più importanti, però, non hanno mai mollato «Jerry»: «Ho servito sei presidenti della Borsa, da Walter Frank nel 1963 fino a John Phelan, il predecessore di Richard Grasso. Richard non veniva a farsi tagliare i capelli, ma passava sempre a salutarmi e mi trattava come un fratello». Grasso, caduto in disgrazia nel 2003, aveva il limite insormontabile di essere calvo. Phelan, però, non mancava mai un appuntamento: «Veniva ogni mese, prima della riunione del consiglio di amministrazione della Borsa, per una scorciatina. Apriva ”Life”, il magazine preferito, e leggeva finché non finivo». «Investimenti? Pochi» Mai una parola su Wall Street, l’economia, qualche dritta sugli investimenti? «Tutti mi offrivano consigli, ma io li rifiutavo per non metterli in imbarazzo, nel caso in cui i titoli suggeriti fossero andati male». A forza di lavorare sotto il floor della Borsa, del resto, Gerardo si era fatto le idee sue: «Qualche soldino l’ho investito, evitando però di perdere il controllo come alle corse dei cavalli. Roba tipo Bank of America, Ibm o Pepsi. Come prima cosa guardo se l’azienda è in blu o in rosso, se fa profitti o perde. Poi voglio che dia buoni dividendi. Sarò pure all’antica, ma se ci metto i miei soldi voglio ricavarne qualcosa ogni mese». Tutti calmi dopo il crollo Non è stato sempre facile riuscirci, negli ultimi quarant’anni: «Io qui sono stato sempre bene, ma la vera epoca d’oro furono gli Anni Sessanta e Settanta. Si guadagnava, la gente era felice, elegante e sapeva stare al mondo senza frenesia. Gli Anni Ottanta sono stati una corsa pazza, ma è finita contro il muro». Dove per muro si intende il 19 ottobre 1987, il lunedì nero in cui Wall Street perse il 22% in un colpo solo: «Ero qui, al lavoro, e lo sa cosa mi colpì di più?». No, ce lo dica lei. «La serenità dei broker. D’accordo, qualcuno fallì e perse la testa, ma la maggioranza aveva una filosofia sempre uguale: quello che sale prima o poi deve scendere, e quello che scende prima o poi salirà. I veri maghi di Wall Street sono così: se oggi è andata male, domani andrà meglio». Un’oasi di serenità Anche durante i terribili mesi del crac, la bottega di Gerardo Gentilella era un crocevia del potere. «Fra i clienti più assidui c’era il giudice Milton Pollack. Per lui i capi di Wall Street facevano un’eccezione, lo lasciavano venire da me a farsi i capelli. Credo che l’attirasse l’oasi di serenità creata dalla mia musica classica, Verdi, Puccini, Mozart, poi Pavarotti e Bocelli. Tutti venivano per prendersi un break dallo stress». Pollack era il giudice che incastrò Michael Milken: mentre Gerardo tagliava, lui stringeva il cappio intorno al collo del più grande truffatore degli Anni Ottanta. «Anche con Grasso, però, è continuata la processione dei personaggi famosi. Senatori, deputati e ministri che passavano da Wall Street, tipo Robert Rubin che era dei nostri, li portavano a visitare la mia bottega. Ho fatto amicizia anche con Maria Bartiromo, l’anchorwoman della Cnbc che mi tratta come suo padre. Una volta fece venire pure il regista del ”Padrino”, Francis Ford Coppola, a farsi barba e capelli da me. Lui mi parlò del suo prossimo film e mi lasciò una bella mancia. Come tutti, del resto». Per quarant’anni Gerardo non ha pagato un centesimo d’affitto, e in più Wall Street gli dava un contributo di 24.000 dollari l’anno per restare aperto e chiedere solo 8 dollari a taglio. Ma ora è finita un’epoca e si chiude: «Dicono che è colpa della fusione con Archipelago e la quotazione in Borsa dello stock exchange: la verità è che ormai si fa tutto con le macchine, e presto non ci saranno più cristiani a cui tagliare i capelli». «Ma in Italia non torno» Ma Gerardo non molla: «In Italia non ci torno da 45 anni: amo la sua arte e la musica, ma ho troppi ricordi brutti di miseria. Troverò qualcosa da fare a New York: volete che a 76 anni, dopo una vita magnifica a Wall Street, mi metta davanti al televisore?». Paolo Mastrolilli