Barbara Spinelli, La Stampa, 03/03/2006, 3 marzo 2006
Parigi, La Stampa, 3 marzo 2006 A forza di dire che l’economia è l’essenza stessa dell’unità europea, che è la ragione per cui sei paesi decisero nel 1951 di costruirla, e che ancor oggi è la sua più vera se non unica finalità, si finisce col non capire del tutto quel che sta gravemente danneggiando lo stare insieme degli stati europei
Parigi, La Stampa, 3 marzo 2006 A forza di dire che l’economia è l’essenza stessa dell’unità europea, che è la ragione per cui sei paesi decisero nel 1951 di costruirla, e che ancor oggi è la sua più vera se non unica finalità, si finisce col non capire del tutto quel che sta gravemente danneggiando lo stare insieme degli stati europei. Il danno è particolarmente visibile in questi giorni, a seguito del muro che il governo francese ha innalzato contro l’intenzione dell’Enel di prender possesso della compagnia elettrica Suez, ma sono ormai anni che l’Unione minaccia di disfarsi. I suoi ultimi momenti di eccellenza sono stati la creazione dell’euro nel 1999 e il progetto di costituzione approvato dai governi il 29 ottobre 2004, su proposta di una Convenzione democraticamente rappresentativa. Ma la costituzione è in alto mare dopo il referendum che l’ha bocciata in Francia e Olanda, e l’euro è la moneta unica di un’Europa che si sta disunendo. La vicenda Enel-Suez-Gaz de France è una delle molte gocce che da anni scavano la roccia di cui è fatto l’edificio europeo, e che hanno finito col renderla friabile, pericolante. Sembra una vicenda tutta economica (uno scontro fra spiriti animali capitalistici e istinti nazionalisti, scrive John Plender sul Financial Times) ma la sua natura più profonda è politica, e politica è la disputa che essa sta suscitando. Ci si domanda se l’Europa sia ancora una priorità, per i politici dell’Unione e in particolare per i paesi fondatori che ultimamente hanno fatto molto per sciuparla. Ci si domanda se surrettiziamente non stia scatenandosi una specie di guerra nella casa europea, che vede oggi contrapporsi Italia e Francia ma che può divenire guerra generalizzata. Il linguaggio militaresco è diffusissimo, nei commenti di giornali e politici. Proprio perché è così diffuso vale la pena rimettere ordine nelle parole, e ricordare quel che in origine convinse gli europei a unirsi e condividere parte delle rispettive sovranità. Come Heidegger dice che l’«essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico», così l’essenza del Mercato Comune non era il mercato, nel dopoguerra. L’Unione nacque non per creare un mercato, ma si propose di creare un mercato per metter fine a uno stato di guerra che durava da secoli. Economia liberale e mercato integrato sono mezzi per un fine strategico-politico, e non a caso la mossa iniziale fu quella di mettere in comune carbone e acciaio: due settori strategici, come strategici sono oggi elettricità e gas. La finalità dell’Unione è la pace duratura tra europei, è superamento politico dei nazionalismi. Non è lo spirito animale del mercato. Quando le cose vanno male in economia è dalla politica che conviene dunque ripartire, visto che con la politica si cominciò. Non stupisce che il primo decisivo progresso che gli europei volevano compiere negli anni Cinquanta, subito dopo la Comunità del carbone e dell’acciaio, fu un’Europa della difesa (la Ced, Comunità europea di difesa). Quel che venne poi (trattati di Roma, Comunità economica, Comunità dell’energia atomica) furono espedienti per far fronte al fallimento - causato ancora una volta da Parigi, nel ’54 - della Difesa comune. Gli espedienti furono grandiosi, ma espedienti rimanevano. il motivo per cui il ministro Tremonti ha un modo di vedere profetico, quando descrive il comportamento francese con parole non solo dure ma volutamente politiche. Quando dice che «si rischia una deriva da agosto 1914: nessuno a quel tempo voleva il conflitto ma poi alla fine il conflitto ci fu», fa capire che gli stati europei senza neppure accorgersene rischiano di fare molto più che un errore economico. Rischiano di risvegliare spettri che distruggono l’Unione e la sua originaria, più autentica finalità. La Francia ha avuto forse le sue ragioni, per difendersi dall’offensiva italiana. Secondo molti esperti ha profittato dell’occasione per privatizzare di fatto Gaz de France, anche se per questa via lo Stato accresce la propria presenza in Suez, ancor ieri privata. La Francia è un paese immobilizzato dallo statalismo, da potenti forze corporative che ritardano la liberalizzazione della sua economia, e ha usato l’Italia per aggirare ostacoli interni che non osava aggirare in altro modo. Ma è pur sempre da Parigi che parte l’aggressione contro un mercato europeo dell’energia. pur sempre Parigi che eleva muri che impediscono il farsi dell’Europa, non da oggi ma da anni. Quest’inchiesta sull’Europa comincia da qui, dal vero paese malato dell’Unione. Perché non è con l’Inghilterra che si troverà un’uscita politica dalla crisi, per il semplice fatto che i dirigenti britannici non la vogliono, né a destra né a sinistra. Se rinascerà, l’Europa sarà rifatta mantenendo viva la memoria storica e non dimenticando quali sono i paesi che l’unione l’hanno pensata, voluta, costruita in cinquant’anni. Tra questi paesi, la Francia resta cruciale. Un misto di smemoratezza e non conoscenza spinge parecchi commentatori, in questi giorni, a criticare l’europeismo di chi punta ancora su Parigi, e non su Londra che dell’Europa avrebbe una visione diversa, più dinamica, fondata su un grande libero mercato. L’idea che esista un’Europa alternativa a quella attuale è basata in realtà su un equivoco: da quando esiste l’Unione, i responsabili inglesi non hanno mancato di far capire che l’Europa politica non la volevano e che avrebbero cercato di disfarla semmai si fosse fatta. Blair ha dimostrato che il risveglio dell’Unione era per lui completamente secondario, nei mesi della presidenza inglese. Ha parlato molto bene di un modello sociale europeo meno compiaciuto dei propri insuccessi, ma parallelamente ha distrutto un po’ più l’Unione (trasformando la «pausa di meditazione» concordata dopo i no referendari in pausa abissalmente vuota; negoziando sul bilancio europeo alla stregua di un meschino mercante egoista). Se ne sono accordi gli europei orientali, delusi da quello che sembrava un alleato intelligente, solidale. Se n’è accorta Angela Merkel, che ha finito col prendere le cose in mano e risolvere un litigio divorato dai nazionalismi. Tanto più importante è che le classi dirigenti francesi guariscano dei propri mali, e tornino a lavorare per l’Europa: un lavoro tra l’altro che ha dato a Parigi ben più prestigio e grandezza, in passato, di quando gliene dia oggi la chiusura nazionalista. I mali sono vasti infatti, affliggono destra e sinistra, hanno aspetti sia economici e interni sia europei: il muro innalzato per fermare l’Enel è fatto di ingredienti che contraddistinguono non solo le pratiche francesi in economia, ma il suo modo di essere in Europa e di minacciarla a intervalli regolari. Gli ingredienti sono la tendenza nazionalista, la tentazione del protezionismo, il ruolo preponderante dello Stato nell’economia e la retorica molto ampollosa, piena di sé, con cui tale ruolo è sempre di nuovo sottolineato e pubblicamente esibito. A queste tentazioni la Francia cede con una spensieratezza che non ha eguali in Europa: senza complessi, senza senso del limite e del ridicolo, senza memoria dei guai che nazionalismi e protezionismi hanno causato nel continente. L’ampollosità è parte di questa impressionante spensieratezza: Parigi si permette quel che generalmente non fa parte del galateo dell’Unione, e che lei stessa rifiuta quando sono gli altri a permetterselo. Che a questo comportamento si reagisca con asprezza non è male: la Francia deve sapere che non può continuare a svolgere il ruolo, in Europa, del paese che detta le regole a tutti ma senza assoggettarvisi. Bisogna infatti vedere perché si è arrivati a questo punto, di militarizzazione verbale delle dispute. Alcune conversazioni che abbiamo avuto in Europa ci hanno convinti di una cosa: i partner della Francia sono stanchi di vedere Parigi rompere con disinvoltura quasi infantile un giocattolo dopo l’altro, senza quasi rendersi conto di quello che sta facendo. Sono stanchi soprattutto nei paesi fondatori (Germania e Italia) perché l’Inghilterra non può che rallegrarsi di queste continue lesioni. A forza di strappi e muri, l’Europa si allontanerà da quell’unione politica che i fondatori dicono di volere senza farla, e che Londra - più coerentemente - non vuole e non fa . il motivo per cui il comportamento parigino fa più danni di un analogo comportamento britannico. Quel che si è costruito nell’Unione, fin dagli esordi, è stato edificato grazie alla Francia, e non solo per imbrigliare la Germania ma per edificare con essa una comunità destinata a diversificare i poteri troppo assoluti dello stato nazione. Dalla Francia dunque vengono i principali progressi dell’Europa, compresi i progressi sulla via della sovranazionalità. Ma anche le regressioni e gli stalli son venuti da Parigi, perché la Francia resta nazionalista: non a caso è il paese più affezionato al diritto di veto nelle decisioni europee. E la permanenza del veto (cioè l’obbligo di unanimità anche quando c’è disaccordo) è quel che impedisce all’Europa di camminare e divenire potenza. Negli ultimi anni, i governi francesi hanno mostrato, di questi suoi due volti, quello più regressivo, nazionalista e supponente. un arretramento emerso con la caduta del muro di Berlino e l’allargamento, quando la verità è venuta alla luce: la Francia non era più l’unico e preminente centro politico d’Europa. Così è diventata non la locomotiva del farsi europeo ma la forza di inibizione. Il suo peso politico è sempre assai forte, ma proprio per questo le conseguenze sono temibili. In Germania mi dicono che ogni regressione francese ha effetti nefasti sugli stati membri vecchi e nuovi, disabituandoli alla disciplina europea e sbrigliando gli impulsi nazionalisti. Karl Lamers, già consigliere di Kohl, teme il decadere dei tabù che a partire dalla seconda metà del Novecento son serviti a incivilire l’agire europeo. Se a cominciare l’offensiva è la Francia, tutti si sentiranno abilitati a rinazionalizzare le loro politiche. Anche nel mercato comune energetico sarà così. Se Madrid aveva qualche remora ad accettare il controllo della compagnia tedesca E.on sul gruppo Endesa, ora si sentirà attratta da mal congegnate soluzioni nazionali. Una fonte mi dice in Germania: « come per il referendum sulla costituzione. Il no francese ha dato le ali a tutti i no che circolano nell’Unione». Gli elettori sono diventati essenziali, ogni politico pensa più a loro che all’Europa, ha detto il ministro degli Esteri Fini. In Italia si arriva a rivalutare la regressive e falsamente patriottiche visioni di Fazio sull’Italianità. Berlusconi accusa addirittura i magistrati di aver sventato le truffe di Fiorani, consegnando in tal modo una banca italiana allo straniero. La Francia è malata, non ha spazio dentro di sé per vedere l’altro. Ma ci sono malati che hanno più forza dei sani, e l’Europa intera è contagiata da questa forza strana e ingannevole. Più volte ho chiesto ai miei interlocutori in Francia come mai questa sfilza di errori isolazionisti, negli ultimi anni. Come mai son così flebili le voci non ortodosse (sulla vicenda Enel i critici europeisti son rari: tra essi il socialista Strauss-Kahn, il centrista Bayrou, l’economista Fitoussi, il quotidiano Le Monde). Ho trovato smarrimento, ho constatato l’assenza di proposte, ma il cruccio di fronte a una lista così lunga di passi falsi è grande. Rievochiamola brevemente. C’è stata in primo luogo la decisione di ignorare i vincoli del Patto di stabilità, in accordo col tedesco Schröder. Era un insieme di regole volute proprio da Parigi e Berlino, ma i due stati hanno deciso che per essi non valevano: era il 25 novembre 2003, e l’effetto di quel tradimento perdura ancor oggi. Poi è venuta la decisione di indire un referendum sulla costituzione europea, sfociata nel No del 29 maggio scorso. Una decisione assurda, un controsenso democratico che solo per finta rispettava gli elettori. Perché si poteva prevedere il disastro, dopo il referendum su Maastricht che Mitterrand vinse di poco nel ’92. Perché il referendum del 2005 non ha avuto luogo simultaneamente nei 25 paesi, come sarebbe stato onesto e democratico fare. Il no francese ha avuto effetti sull’Olanda, e ha contribuito all’eurofobia che sta agitando l’Europa orientale. Si è consentito a un solo paese di rovinare tutto, e quel paese ancor oggi sembra non rendersene conto. Non sono solo i No a essere indifferenti. Anche i Sì sono lì tutti mortificati, taciturni, e sovranamente disinteressati. Mi è capitato di interrogare un noto esponente del Sì, nelle settimane scorse. Ha rifiutato di parlare della crisi europea perché «l’affare è ormai molto, molto lontano dai miei interessi». Poi c’è stata l’irresponsabilità di un politico europeista come Fabius, che cambiando casacca ha lacerato la sinistra e fatto vincere il No. E non è tutto: nella serie di prevaricazioni francesi ci sono state le offese di Chirac ai paesi europei orientali, durante il negoziato d’adesione e prima della guerra dell’Iraq. «Avete perso l’occasione di stare zitti», tuonò il Presidente, ingigantendo le loro diffidenze antieuropee. La posizione sull’Iraq è stata decisa con Schröder senza alcuna consultazione con gli altri europei. Anche questo fu fatto per far brillare Parigi, non l’Europa. Tutte queste condotte sono avvolte ogni volta da retorica europeista. « straordinaria l’ipocrisia della Francia», mi dice Pierre Lellouche, studioso di strategia e deputato gollista, «si mescola l’europeismo con l’illusione del fare da sé, il modernismo verbale con il più arcigno conservatorismo economico». Invariabilmente, gli atteggiamenti francesi sono impregnati di una gioiosa arroganza, che ha radici nel gollismo e nelle politiche della sedia vuota. Anche oggi di fatto c’è una sedia vuota, solo virtualmente occupata da una Francia caoticamente senza idee. Barbara Spinelli