La Repubblica 01/03/2006, pag.1-21 Luigi Spaventa, 1 marzo 2006
Gaz de France - Enel. la Repubblica, mercoledì 1 marzo L’annunciata fusione fra Gaz de France e Suez non è priva di merito industriale, uniformandosi a due trend oggi prevalenti nel settore energetico: la crescita di dimensione (l’entità derivante dalla fusione sarebbe per capitalizzazione la seconda in Europa, dopo Electricité de France e sempre che la tedesca Eon non riesca ad acquisire la spagnola Endesa); e, ancor più, l’accorpamento di gas ed elettricità
Gaz de France - Enel. la Repubblica, mercoledì 1 marzo L’annunciata fusione fra Gaz de France e Suez non è priva di merito industriale, uniformandosi a due trend oggi prevalenti nel settore energetico: la crescita di dimensione (l’entità derivante dalla fusione sarebbe per capitalizzazione la seconda in Europa, dopo Electricité de France e sempre che la tedesca Eon non riesca ad acquisire la spagnola Endesa); e, ancor più, l’accorpamento di gas ed elettricità. La possibilità dell’operazione, del resto, era già stata considerata in passato, trovando un ostacolo nella riduzione della quota pubblica in Gaz de France, oggi largamente maggioritaria. Ma la questione, evidentemente non è questa. Quel progetto è stato tirato fuori dalla naftalina, e l’ostacolo è stato superato, non appena Enel ha goffamente (fino a prova contraria) manifestato l’intenzione di fare un’offerta di Suez. Ed è stato tirato fuori non solo con il gradimento, ma per impulso del governo francese, che ha scritto una nuova pagina nella storia della corporate governance di società quotate, quando ha mandato in televisione primo ministro e ministro del tesoro ad annunciare la fusione, mentre gli amministratori delegati delle due società restavano silenti in seconda fila; e che già prima aveva intimato ad altre società francesi di ritirare il proprio gradimento all’acquisizione delle attività non energetiche di Suez ove questa fosse passata in mano di Enel. A questo punto la mossa francese è diventata una questione politica, configurandosi come una rinnovata manifestazione di ostilità del governo francese all’ingresso di grandi imprese straniere: con l’aggravante che si trattava in questo caso di un’impresa dell’Unione europea. Sulle debolezze endemiche del nostro sistema, che ci pongono ancora una volta in condizioni di inferiorità e che ci hanno fatto cadere fra due sedie - quella del modello statalista francese e quella del modello mercatista britannico - Alessandro Penati ha detto lunedì scorso, impeccabilmente, tutto quello che c’era da dire. Occorre tuttavia riconoscere che l’erezione oltralpe di una linea Maginot contro i nostri timidi tentativi di ingresso richiede una risposta politica. Ma conviene distinguere fra quanto si può e si deve fare subito, quanto non è consigliabile fare in fretta e quanto né si può né si deve fare. Ovviamente, la Commissione di Bruxelles è la prima istanza a cui rivolgersi, anche se non è immediatamente evidente sotto quali profili, al di là della censura morale di violazione dello ”spirito del trattato”, la Commissione possa intervenire: Mario Monti, ieri, ha lucidamente illustrato la griglia dei punti critici che potranno essere esaminati. Si consideri intanto che il governo italiano ha sinora mostrato grande clemenza nei confronti, guarda caso, di Electricité de France (EdF). Quando l’Enel fu obbligato a dismettere in parte la generazione di corrente, con la vendita delle cosiddette Genco, o compagnie di generazione, un decreto del presidente del Consiglio stabilì che nessuna società controllata da un soggetto pubblico potesse acquisirne più del 30%. EdF, attraverso Edison supera quel limite, che non è stato fatto rispettare. Lo si faccia ora; e si aggiunga che la stessa sorte toccherà a Electrabel, la società di elettricità belga incorporata recentemente in Suez, che è anch’essa in una Genco italiana con una quota superiore al 30%: dopo la fusione con Gaz de France, anche Electrabel sarà sotto controllo pubblico, posto che lo Stato francese controllerà di fatto la nuova entità. Non sarebbe invece saggio confezionare in fretta e furia una nuova legge sulle Opa, le offerte pubbliche di acquisto, come reazione alla guerra gallica. La direttiva europea da recepire (di cui funestamente un nostro ministro fu la levatrice) è pessima, consentendo a chiunque di fare quello che vuole. Prima di modificare in radice la nostra buona legge, quella del testo unico della finanza, modellata sulla disciplina inglese, ci si pensi due volte. La guerra gallica è temporanea. Le conseguenze sul mercato del controllo societario, già ingessato nel nostro Paese, sarebbero permanenti. E poi le cose da non fare, anche perché non le si possono fare. Le agenzie attribuiscono al presidente Prodi il suggerimento di bloccare l’offerta di Bnp Paribas sulla Banca nazionale del lavoro. Singolare proposta. Che facciamo? Vietiamo a Unipol, priva dell’autorizzazione a fare l’offerta, di vendere le sua azioni di Bnl a qualsivoglia soggetto francese? Via sicura non solo per mettere Unipol nei pasticci, ma per procurarci un procedimento di infrazione da parte della Commissione di Bruxelles. E poi, dove sono queste banche italiane pronte a sostituirsi agli stranieri? Fazio ne trovò una: era la banca di Fiorani. Ma qualcosa di altro c’è da fare. A Bruxelles e a Strasburgo l’Italia conta poco o nulla. Alla Commissione abbiamo perso un portafoglio di grande rilievo, che poteva toccare solo a Mario Monti; e abbiamo perso tutte le direzioni generali importanti. Al Parlamento europeo i membri italiani, con qualche eccezione, sono presenti, se lo sono, solo al momento delle votazioni in aula. Alla commissione per gli affari economici e monetari, dove si decide la legislazione sull’industria finanziaria, gli altri Paesi schierano parlamentari ferratissimi, che difendono gli interessi nazionali; i nostri parlamentari sono solitamente assenti. Per difendere i nostri interessi in Europa bisogna lavorare da europei: ossia, semplicemente, lavorare. Luigi Spaventa