1 marzo 2006
Il Caucaso e la bardana, Il Riformista, venerdì 1 novembre 2002 Un giorno di mezz’estate del 1896, Lev Nikolaevic Tolstoj, quasi settantenne, tornando a casa attraverso i campi, vede una magnifica bardana, color cremisi e in pieno fiore, quella pianta che i russi chiamano anche tartara e i contadini evitano di toccare per non pungersi
Il Caucaso e la bardana, Il Riformista, venerdì 1 novembre 2002 Un giorno di mezz’estate del 1896, Lev Nikolaevic Tolstoj, quasi settantenne, tornando a casa attraverso i campi, vede una magnifica bardana, color cremisi e in pieno fiore, quella pianta che i russi chiamano anche tartara e i contadini evitano di toccare per non pungersi. E tornando con la mente a quando, nel 1851, giovane nobile dissipato, lasciò Mosca in trojka all’alba e prese la strada del Caucaso per tentare la gloria militare e l’avventura della Frontiera, inizia a scrivere la storia del tartaro Chadzi-Murat, ambientata in quell’anno. Tra il tempo del servizio militare e quello del ricordo, Tolstoj è diventato un ardente pacifista, ha studiato la lingua cecena e l’ammirazione per i montanari musulmani, il loro senso dell’onore e la concezione primitiva della vita si è trasformata in simpatia per la causa anticolonialista. L’impegno politico a volte trova diretto sfogo nell’attività epistolare rivolta con tono imperioso allo zar, altre volte resta subordinato al genio del romanziere. Nel 1904, Tolstoj termina Chadzi-Murat, portato avanti a singhiozzo nel turbinio di articoli contro la guerra e per la renitenza alla leva, contro la pena di morte e per la tolleranza religiosa. La pianta di bardana non era riuscito a coglierla, pungeva da ogni parte ed era tanto resistente che, dopo ripetuti tentativi, si rese conto che l’aveva rovinata e avrebbe fatto meglio a lasciarla come era. Nondimeno, mutilata restava in piedi. Allo stesso modo i caucasici dimostravano un’invitta capacità di resistere alla mano che tentava di piegarli e sceglievano di opporsi fino a essere estirpati, piuttosto di accettare la dominazione russa. Chadzi-Murat è il vice del padrone del Caucaso, l’Imam Shamil, venerato dalla sua gente come un santo. Per i russi sono i peggiori briganti, pressoché diavoli, spauracchio dell’esercito e dei coloni cosacchi. I loro nomi hanno un suono sinistro nelle candide orecchie delle mogli degli ufficiali che cercano di riprodurre, nonostante il clima di pericolo, una parvenza di vita mondana, bevendo champagne, disprezzando la vodka e giocando con carte di raso. Con le loro rapide incursioni, Shamil e Chadzi-Murat piombano sulle colonne in marcia, uccidono, seminano il terrore. Li unisce la guerra santa; li divide una vecchia faida famigliare. Allorché farà sentire le proprie ragioni, a Chadzi-Murat non resta che allearsi ai russi. Nessun altro, dalla Cecenia al Daghestan, può offrirgli protezione. Il diavolo da vicino si dimostra umano: i modi fieri e diretti, l’inconfondibile portamento di cavaliere caucasico aprono a Chadzi-Murat le porte dello stato maggiore di stanza a Grozny e dintorni. La sua testa inturbantata viene scorta anche nella platea di un teatro d’opera. Il generale Vorozonov si meraviglia di come simpatizzi con sua moglie e col figliastro. Il ritmo delle cinque preghiere quotidiane ad Allah, per Chadzi-Murat ora è scandito da un elegante orologio a molla. Ma solo il rispetto della parola data può sopraffare l’odio per i russi. Quando il nemico Shamil gli rapisce la famiglia, Chadzi-Murat implora i russi di cercare di liberarli con uno scambio di prigionieri. Il ministro della guerra vuole convincere lo zar che Chadzi-Murat è infido, come tutti i caucasici non potrà fare a meno di tradire i bianchi; e propone di deportarlo. Né lo scambio di prigionieri né la deportazione sono ritenute scelte sagge da Nicola. A Chadzi-Murat non resta che l’impotente attesa o il tentativo di fuga per risolvere la situazione da solo. La sua ormai è la condizione del prigioniero. Durante la cavalcata mattutina, scortato come al solito dai fedeli attendenti, per prendere la strada della montagna deve sparare sui cosacchi che controllano il pittoresco gruppo. Giunto sotto una nera vetta, spruzzata di neve, sceglie di depistare gli inseguitori dirigendosi, contro la logica, verso l’infida pianura oltre il fiume. Presto i cavalli s’imbattono in una risaia inondata; ogni passo è frenato dal fango e fa il rumore del turacciolo mentre viene stappato. I russi, aiutati da Hadgi-Agà, momentaneamente alleato con loro e contro Chadzi-Murat, riescono a sopraffare i fuggitivi. E come un fiore della bardana color cremisi, la testa del mitico montanaro musulmano viene recisa da un colpo di spada e mostrata come un trofeo nei fortini russi della Frontiera. Ma la pianta... Antonio Armano