La Stampa 24/02/2006, pag.36 Giuseppe Berta, 24 febbraio 2006
Wal-Mart questo è capitalismo. La Stampa 24 febbraio 2006. Se si domandasse qual è l’impresa che meglio incarna lo spirito del capitalismo attuale, molti - e non soltanto in quegli Stati Uniti che sono diventati la terra d’adozione del capitalismo e della sua cultura - risponderebbero probabilmente indicando la Microsoft di Bill Gates
Wal-Mart questo è capitalismo. La Stampa 24 febbraio 2006. Se si domandasse qual è l’impresa che meglio incarna lo spirito del capitalismo attuale, molti - e non soltanto in quegli Stati Uniti che sono diventati la terra d’adozione del capitalismo e della sua cultura - risponderebbero probabilmente indicando la Microsoft di Bill Gates. L’egemonia tecnologica sembra infatti, nel suo caso, sposarsi perfettamente col protagonismo imprenditoriale spinto al massimo grado. La risposta che offre invece Richard Sennett nel suo ultimo libro, La cultura del nuovo capitalismo, appena uscito in America e da domani in libreria in Italia (lo pubblica il Mulino), è diversa, meno centrata sugli aspetti tecnologici e più sui tratti di identificazione dei comportamenti. Per il sociologo americano che insegna al Mit di Boston e alla London School of Economics, autore di quel piccolo classico sulla figura centrale del nostro tempo rappresentata dall’Uomo flessibile (questo il titolo del suo saggio più fortunato, tradotto da Feltrinelli nel 1999), non bisogna guardare alla Microsoft per cogliere i lineamenti del capitalismo contemporaneo quanto invece a Wal-Mart, la gigantesca catena di grandi magazzini globali. Il primato di Wal-Mart non dipende soltanto, secondo Sennett, dall’enorme giro d’affari che realizza, pari nel 2004 a 258 miliardi di dollari (cioè una cifra equivalente al 2% del Prodotto lordo Usa, superiore di otto volte alle dimensioni di Microsoft), con quasi un milione e mezzo di dipendenti. Wal-Mart è più di questo: è un modello, quello che appunto compendia in sé i caratteri del «nuovo capitalismo», che facciamo coincidere con la fluidificazione del processo economico, la tendenza a burocratizzare l’impresa e a renderla «piatta», cioè quasi senza gerarchia interna, la natura per definizione temporanea e intermittente delle relazioni di lavoro. E poi, naturalmente, Wal-Mart è un esempio da manuale dell’impresa globale, che attinge a filiere di fornitura dislocate in tutto il mondo (da tempo ha sviluppato un sistema di connessioni stretto ed efficiente con la produzione industriale della Cina), che governa con un metodo di centralizzazione ferrea, grazie alla tecnologia che permette di monitorare costantemente i legami di mercato. Inoltre, Wal-Mart è l’esempio dell’efficacia di una politica di incessante innovazione manageriale, che ha dislocato tutti i poteri al centro e ha spogliato quasi di ogni prerogativa il sindacato, trattando la massa dei dipendenti come lavoratori temporanei, reclutabili e licenziabili in base alle necessità operative e ai cicli economici. Il volto con cui Wal-Mart si presenta ai consumatori è impersonale: l’azienda non chiede ai suoi addetti di curare i rapporti di vendita con la tecnica del faccia-a-faccia con i clienti. Ciò che deve imporsi alla mente del consumaore e suscitare in lui la propensione all’acquisto è la concentrazione visibile di una massa sterminata di beni profondamente eterogenea, ma accomunata dal fatto di essere raccolta in una medesima area. Quanto fa presa sul consumatore è soprattutto la presentazione, dinanzi ai suoi occhi, di una miriade di oggetti che gli comunicano l’impressione di poter aumentare la gamma delle sue opportunità. Sennett dice che, in fondo, il capitalismo stile Wal-Mart si può paragonare a un Mp3, a un lettore musicale capace di immagazzinare una quantità smisurata di suoni che non ascolteremo mai. Anzi, che non ci ricorderemo neppure di avere immagazzinato, perché pare dimostrato che la gran parte della gente tende ad ascoltare e a riascoltare un numero assai limitato di brani musicali e di canzoni. Insomma, l’universo del «nuovo capitalismo» tende ad alimentare un campo di opportunità di cui non faremo mai davvero uso. Eppure continueremo a sostituire i nostri computer con esemplari più recenti e ancora più potenti, dotati di possibilità cui ricorreremo solo in misura limitatissima. La distanza che separa il mondo di Wal-Mart da quello della grande impresa emblema di un’altra stagione del capitalismo, quella che Sennett chiama del «capitalismo sociale» ormai tramontato, è radicale. Difficile non sottolineare come, mentre la stella di Wal-Mart è al suo apice, quella della General Motors, la grande impresa americana per eccellenza di mezzo secolo fa, è al punto più basso della sua parabola. Proprio la Gm era l’istituzione tipica del «capitalismo sociale»: essa costituiva una macro-organizzazione fortemente burocratizzata, con una folta gerarchia intermedia, in cui i posti di lavoro erano tendenzialmente a vita e il potere di rappresentanza e di contrattazione del sindacato era forte. Del tutto opposti i codici di valore che strutturano il capitalismo odierno: l’occupazione è fluida e mobile, al punto che se si resta troppo a lungo in un posto si rischia di sembrare inadeguati; delle persone conta il potenziale più che il concreto saper fare; il breve periodo ha la meglio sulla capacità di durare in un arco lungo. Tutti fenomeni che Sennett associa non soltanto alla minaccia dell’instabilità, ma a un senso pervasivo e crescente d’ansia, la cifra dominante della nostra contemporaneità. Brillante e persuasiva nel tratteggiare l’analisi dell’organizzazione economica del XXI secolo, la mano di Sennett non appare altrettanto sicura quando si tratta di indicare dei correttivi sociali alla situazione che ha descritto. Per lui, le armi tradizionali del sindacato sono spuntate: gli sembra più significativa l’esperienza di un organismo nuovo come quello delle segretarie di Boston, che opera come una «una sorta di agenzia d’impiego», per dare continuità occupazionale alle aderenti, restituendo un senso di unità alle loro biografie lavorative, altrimenti frammentarie. Questo tipo di sindacato cerca soluzioni adatte sul terreno delle pensioni e dell’assistenza sanitaria, mentre tenta di ricreare quel senso comunitario che è andato smarrito nei luoghi di lavoro. Pare quasi di tornare alle radici del sindacalismo, al mutuo soccorso da cui prese forma il movimento operaio. Il fatto è che, da questa prospettiva, ci si muove in una terra di nessuno, della quale si conoscono le asperità e le insidie, non ancora i ripari. Giuseppe Berta