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 2006  febbraio 27 Lunedì calendario

Il padre che avvelenava gli avversari del figlio. La Stampa 27 febbraio 2006. Parigi. Maxime Fauviau era un tennista mediocre, non aveva i colpi, dritto appena passabile, rovescio didattico e sciatto, «uno che la buttava semplicemente di là» sanzionavano i pratici con una sola occhiata da bordo campo

Il padre che avvelenava gli avversari del figlio. La Stampa 27 febbraio 2006. Parigi. Maxime Fauviau era un tennista mediocre, non aveva i colpi, dritto appena passabile, rovescio didattico e sciatto, «uno che la buttava semplicemente di là» sanzionavano i pratici con una sola occhiata da bordo campo. Poteva far paura all’avversario al massimo nei tornei dei dopolavoro e dei dilettanti. Eppure Maxime vinceva, vinceva sempre. Dall’altra parte della rete gli avversari sembravano storditi, non riuscivano a correre, si trascinavano senza speranza boccheggiando, quasi sempre l’abulia li spingeva alla resa in anticipo, come se avessero capito di non avere possibilità. Da Nantes a Bordeaux, da Montepellier a Dax, il giovane Maxime arrivava scortato dal padre e scalava i tabelloni più impervi come se fosse mosso da una forza misteriosa. Anche nel luglio del 2003 Alexandre Lagardère, un giovane maestro, era uscito dal campo a Tartas nelle Landes dopo appena un set disastroso: stava male, le gambe non rispondevano agli impulsi del cervello, le palline giocate in modo squinternato da Maxime gli sembravano missili imprendibili. E pensare che erano bastati pochi colpi preliminari per capire che quell’avversario era ben al di sotto del suo livello di gioco, una preda tranquilla. Furioso con se stesso, Alexandre salì subito in auto per tornare a casa: lo trovarono i gendarmi, senza vita, nell’auto che era uscita di strada dopo pochi chilometri. Non c’era un giallo evidente, forse tutto sarebbe finito nei dossier della imprudenza stradale se i gendarmi non avessero, per caso, scoperto che il giovane poco prima si era sentito male durante il torneo di tennis. L’autopsia accertò che aveva nel sangue tracce di Temesta, un ansiolitico che ha pericolosi effetti collaterali come la perdita di controllo. Nessun medico gli aveva mai prescritto quel farmaco: perché lo aveva utilizzato, per di più sapendo di dover giocare un incontro di tennis? Valentine Fauviau è la sorella minore di Maxime, nel 2003 aveva quindici anni. Lei, sì, sapeva giocare a tennis, un folletto del fondo campo con i colpi a due mani che sembravano moltiplicare la forza di braccia ancora esili, da bambina. Valentine era già considerata dalla federazione francese come la migliore promessa delle categorie giovanili. Ma anche i suoi incontri spesso, troppo spesso, finivano prima del tempo con il ritiro dell’avversaria. Le ragazze si sentivano male, gettavano la spugna contro quella piccola furia che, certo, alla fine avrebbe vinto ma che potevano ancora impegnare. Il padre-allenatore dei due tennisti, Christophe, mercoledì siederà sul banco degli imputati in corte di assise a Mont-de- Marsan. L’accusa è grave: «somministrazione premeditata di sostanze nocive che hanno causato involontariamente la morte». Rischia venti anni di prigione. lui, secondo l’accusa, che ha riempito di Temesta la bottiglietta di acqua minerale dell’avversario di suo figlio prima della partita. Lo faceva da tre anni, da quando dopo aver abbandonato l’esercito, dove era pilota di elicotteri, aveva deciso di trasformare i suoi due ragazzi in campioni. Una volta che gli investigatori avevano afferrato il filo dell’inchiesta lo hanno sgomitolato senza problemi; era un filo interminabile, decine e decine di episodi, malesseri, ritiri, tennisti finiti all’ospedale, giovani sportivi che sprizzavano salute che di colpo, appena scesi in campo, diventavano automi imbambolati, come in preda a una malìa. Episodi che nessuno aveva pensato di collegare, tornei giocati a centinaia di chilometri di distanza nell’anonimato, senza riflettori, diventavano di colpo uno scenario sconcertante, articolato, un complotto. Emerse dai verbali anche qualche testimone, come un avversario di Maxime che aveva sorpreso il padre che armeggiava attorno alle bevande dei giocatori. E da nuove analisi sempre il Temesta, la pozione avvelenata dei fratelli Fauviau. Eppure questa non è la storia, squallida e terribile, dell’ennesimo padre padrone del tennis, uno di quei despoti psicotici che rovesciano sui figli, che siano la scintillante Sharapova o talenti appena sbozzati, le frustrazioni dei loro insuccessi, che chiedono ai ragazzi a tutti i costi di incassare l’assegno della fortuna che a loro è mancato. Christophe Fauviau era paziente, gentile, non pretendeva dai suoi due campioncini più di quanto potessero dare, li voleva felici, si era persino rassegnato a non immaginare per il poco talentoso Maxime nulla di più che un futuro di piccoli tornei di provincia. Allora perché? Il torneo del delitto non proponeva premi sontuosi, era una gara di serie B, anche vincendo Maxime sarebbe rimasto un incorreggibile mediocre. E lei, Valentine, era in grado di farcela da sola, aveva vinto tornei anche quando il padre e i suoi raggiri erano assenti. Forse perché un padre può uccidere anche per troppo amore. Domenico Quirico