24 febbraio 2006
Tags : Wataya. Risa
Risa Wataya
• Nata a Kyoto (Giappone) il primo febbraio 1984. Scrittrice. «[...] una ragazzina che scrive libri e vince prestigiosi premi letterari come l’Akutagawa e il Bungei [...] Install [...] in Giappone un milione di copie, ha una prosa scarna ma ricca di inusuali immagini, da saggia adolescente che giudica il mondo [...] appartiene alla generazione post-bolla, post baburu, come si dice in giapponese. Così, se formalmente sembra ricalcare le orme di Banana Yoshimoto, i premi, gli allori, il successo, in realtà percorre un’altra strada. Non c’è la città nel suo racconto, non ci sono voci del grande coro urbano, non c’è nemmeno sesso se non virtuale, via computer, chat-line porno. Ma il computer è un vecchio arnese, e i fans giapponesi di Wataya Risa [...] si chiedono ansiosi ”Ma è un Mac o un Pc? Non si capisce”. Lei non lo ha specificato, segno del suo disinteresse [...] Ad Asako, la studentessa diciassettenne protagonista del romanzo, il computer lo ha regalato il nonno, dicendole ”così ogni tanto ci scambiamo delle e-mail”. Promessa mai mantenuta, nonno defunto. Da questo si capisce che Asako non è una patita dell’Internet, non ha nemmeno un cellulare. Non ha niente, quel poco che aveva nella sua stanza, computer compreso, lo butta via, nell’immondezza. Perché? Per annientarsi? Per ricominciare da capo? Bella soddisfazione, sua madre neanche se ne accorge. Il computer però attrae un ragazzino di dodici anni che abita nello stesso condominio di Asako il quale se lo porta a casa, riesce a rimetterlo in funzione, lo nasconde in un armadio e chiede a Asako di entrare nel suo business: una prostituta, madre di un bambino di pochi mesi, conosciuta da lui, che si è finto femmina adulta, chattando sul telefonino, gli ha chiesto di fare delle marchette virtuali al posto suo, cioè di intrattenere i clienti sulla home-page del night club dove lavora. Dalle nove alle sei, orario continuato, per il sesso virtuale. Dopo ci penserà lei, Miyabi, al night club. Il dodicenne ci sta, sono bei soldi, e può farlo ora che ha il computer del nonno dell’amichetta. Solo che lui la mattina va a scuola. Non potrebbe Asako, chiusa nell’armadio, chattare la mattina, visto che a scuola non ci va più? Asako accetta. Perché no? Perché farsi simili domande? E così per un mese porno-chattano, chiusi nell’armadio, lei la mattina, lui il pomeriggio. Conversazioni assai poco eccitanti, ma pagate, pagate bene. [...] Comunque, alla fine la mamma di lei si accorge che la figlia non va più a scuola, e piange. Primo successo per Asako. Quella di lui ha capito che la ragazza entra in casa sua di soppiatto tutte le mattine e si chiude nell’armadio, a fare chissà cosa, magari cosacce con il ragazzino. Ma per Asako, secondo successo, la colpevole è la mamma del bambino. Ha steso ad asciugare sul terrazzino un reggiseno color carota. ”Dava tremendamente nell’occhio, faceva l’effetto di un fungo velenoso. Non era lecito, anche ammettendo che non lo facesse con malizia. Quel reggiseno provocante aveva eccitato e turbato qualcuno fino a spingerlo ad avventurarsi in tenera età nel mondo dell’eros”. Povera mamma del dodicenne, commessa in un negozio di ”intimo per signora”. Dal suo mondo astratto e impersonale della porno chat line, la ragazzina condanna la donna in nome della morale sessuofobica giapponese stando alla quale le donne non devono mai stendere la loro biancheria intima all’esterno perché così si eccitano i ”ladri di mutandine”. Che ci sono, eccome. Morale? Nessuna. Se non forse quella che è meglio marinare la scuola e porno-chattare che mettersi un reggiseno color carota. Ovvero: ma possibile che gli adulti non capiscano proprio mai niente!» (Renata Pisu, ”la Repubblica” 24/2/2006).