QN 22/02/2006, pag.29 Antonio Fulvi, 22 febbraio 2006
Quei pivoli impauriti che diventano uomini. QN 22 febbraio 2006. Livorno. Non c’è ufficiale di marina, di oggi e di ieri, che nei confronti del Vespucci non nutra un giusto mix di odio ed amore
Quei pivoli impauriti che diventano uomini. QN 22 febbraio 2006. Livorno. Non c’è ufficiale di marina, di oggi e di ieri, che nei confronti del Vespucci non nutra un giusto mix di odio ed amore. Ci sono passati tutti, senza esclusioni, da tre quarti di secolo. E ci sono passati subito dopo il primo anno d’Accademia, in quella che spesso è stata la prima seria navigazione della loro vita. Quando s’imbarcano, freschi del primo anno di Livorno, non sono nemmeno allievi: sono "pivoli", che in gergo vuol dire pulcini. Sono una anonima massa di ragazzini- e oggi anche ragazzine- che magari hanno imparato bene i logaritmi e il sestante, ma sono saliti arriva, verso le stelle, solo sugli alberi del brigantino da esercitazione, che è inchiodato sul piazzale di cemento dell’Accademia, ha un chilometro quadrato di reti di sicurezza e comunque non si muove d’un centimetro. E’ così che nei i primi giorni di crociera il Vespucci si rivela per molti non quello splendido sogno che appare dall’esterno bensì una spaventosa galera. Vomitano in branda e in coperta, tremano di freddo e di paura quando il nostromo e i nocchieri li mandano sadicamente a imbrogliare le vele a venti metri d’altezza sotto la pioggia con la nave che oscilla come un pendolo -nostromo e nocchieri che hanno da sempre il piede marino e si fanno un punto d’onore di strapazzare quei "pivoli" che domani forse li comanderanno-, si spellano le mani ai paranchi delle boline, studiano e si esercitano agli strumenti con la nave sbandata per giornate intere. Qualcuno, nei primi giorni della prima crociera, rischia di spezzarsi dentro, di mollare. Perchè i "pivoli" sono ragazzini di diciotto o diciannove anni, e sul Vespucci non c’è mamma che consoli e protegga. E’ a metà crociera poi che in genere il Vespucci fa il miracolo: dal bozzolo dei "pivoli" quasi all’improvviso escono le farfalle, la dove dove farfalla è possibile diventare. Qualcuno si perde, qualcuno a fine crociera rinuncia e scappa a gambe levate, odiando il Vespucci e i suoi riti, la nave e le sue tremende scomodità, i nocchieri e le loro maledette manovre da equilibristi dentro le nuvole, gli ufficiali e i loro nemmeno troppo sottili sfottò ("Complimenti signor X, il punto-nave che ha elaborato con il suo sestante ci pone esattamente sulla cupola del Brunelleschi di Firenze"), il quotidiano posto di pulizia a frettazzare la coperta, eccetera. Ma quelli che ce la fanno abbandonano le piume e diventano allievi, acquistano il piede marino, sputano finalmente sottovento e infine battezzano solennemente il loro corso con nomi aulici e guerrieri. Il mio corso, mezzo secolo fa, prese il nome di "Samurai" e mi vanto sottovoce di averlo suggerito proprio io. Solo chi non va per mare si chiede - e a cicli ricorrenti sono troppi a chiederselo- a che serve un veliero ottocentesco per formare ufficiali di marina nell’epoca dei missili, delle portaerei e dei sottomarini nucleari. Splendida nave per far scena nei porti, il Vespucci in fondo in fondo va più a motore che a vela, è pieno di compromessi con la modernità fino al punto di esser di ferro pitturato per farlo sembrare legno. La risposta dei suoi più celebri comandanti, tra cui il pluricampione olimpico delle Star Sgostino Straulino, è che anche un mezzo-veliero come il Vespucci insegna le leggi del mare come nessun’altra nave moderna. E salir sugli alberi, frettazzare il ponte di coperta, rispettare i ritmi del vento e delle onde, serve a cementare quello spirito di unione tra i giovani che per Horatio Nelson e la sua "band of brothers" era e sarà sempre la differenza tra un insieme di persone e un equipaggio di uomini di mare. Antonio Fulvi