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 2006  febbraio 19 Domenica calendario

Luxuria: così mi emozionai con Fausto. La Stampa 19 febbraio 2006. Roma. Per prima cosa, bisogna mettere in chiaro il genere

Luxuria: così mi emozionai con Fausto. La Stampa 19 febbraio 2006. Roma. Per prima cosa, bisogna mettere in chiaro il genere. Evitare il giochino scontato. Roba tipo, Vladimir Luxuria è nata/o a Foggia nel 1965 ed è candidata/o con Rifondazione comunista. E per mettere in chiaro il genere, serve la premessa: Vladimir è un uomo, ha il corpo di un uomo ma è transgender, non un semplice travestito, ma un uomo che dentro si sente donna, si veste da donna e vive da donna. Soprattutto da donna. «Se usi il femminile sono più contenta. Se usi il maschile sono contento lo stesso». E’ pomeriggio presto. Piove e Vladimir prende il caffè, fuma la sigaretta, ha i gomiti sul tavolo, le spalle verso l’alto, si rigira il rigirabile fra le dita. Attorno le pareti sono fucsia. La casa non è bella, non è ben arredata. «Non ho i soldi». La cucina è in ordine. Lo studiolo ha il computer e un libreria scarna, senza fondo, con la Bibbia e le istruzioni del telefonino, i fumetti, robe su David Beckham, i classici della letteratura. Noi stiamo in salotto. Ma non è un salotto: c’è un divano e il tavolo, e mensole coi cd e un orologio a pendolo che è una mucca sorridente. «Quando ho comprato casa, i mobili c’erano già. Non mi piacevano. Li ho fatti colorare». Sono piccole credenze verdi con i prati, gli alberi, il cielo. «Io resto qui, anche se mi eleggono». Qui, al Pigneto, che non è il miglior posto di Roma. Diventa grande. Vladimir non lo dice, ma sta diventando grande. Entrerà al Parlamento. Sarà deputato. «Non ci credo neanche io». La cosa è nata così: tre anni fa, Vladimir era a teatro a vedere «Quattro rose per Jennifer», di Annibale Ruccello. C’era anche Fausto Bertinotti. «Parlava della solitudine dei femminielli napoletani. Bertinotti era lì, e non c’erano telecamere o robe istituzionali. Solo per vedere uno spettacolo teatrale. Sono buddista, non credo al caso». Si incrociarono sulle scale, in coda per complimentarsi coi protagonisti. «Ci scambiammo le emozioni». Si sono rivisti, per esempio, qualche mese fa. Un incontro per discutere dei pacs. «Ho spiegato che cosa penso di noi, dei patti di convivenza, e Bertinotti è venuto a stringermi la mano e aveva gli occhi lucidi». Il fatto, dice Vladimir, è che la gioventù del movimento sta sfumando come la gioventù di tutti loro. «Non è più tempo di rivendicare la nostra sessualità usando il corpo, quasi sfruttandolo, esibendolo, spalancandolo, squadernandolo». Qui dietro di noi c’è uno di quegli specchi con mille lampadine, per truccarsi il dettaglio. Vladimir ci butta uno sguardo e poi si butta all’indietro di venti anni. «Andai a trovare un mio amico allo Spallanzani. Si chiamava Marco. Era ricoverato perché aveva l’Aids. C’era un ragazzo che lo puliva con l’ovatta. Lui era consunto e non riusciva a parlare. Io ero colpita dall’umiliazione del corpo, e dallo sfacelo provocato dall’Aids in una settimana». Senti, dice, col corpo ci legittimavamo e nel corpo venivamo puniti. Senti, dice, a un certo punto la necessità di imporsi ai benpensanti, magari facendo scandalo, si indebolisce, quasi scompare. Dice: «Non c’è prepotenza». Non c’è, dice, il diritto civile preteso con l’arroganza di una frociaggine ostentata. «Si comincia a pensare alla vecchiaia. Al proprio compagno. A chi ci assisterà o se potremo assistere. La pensione di reversibilità. Si comincia a pensare a queste cose con l’apprensione di tutti. E allora, sentite queste cose così normali, Bertinotti è venuto a stringermi la mano e a ringraziarmi». Se sarà, sarà onorevole Guadagno. Il suo vero cognome. «Onorevole Guadagno in Rifondazione comunista è un ossimoro, vero?». Porterà tutto il rispetto dovuto. Sopporterà le ironie perché è temprata dai decenni. «Sono un enfant prodige. Mi sono accorta di me a dodici anni. Ho cercato di ribellarmi e mi sono fidanzata con le ragazze. Mi piaceva stare con loro. Le baciavo. La prima si chiamava Antonella. Ma non mi eccitavo». Tutto cambiò a Rimini, gita scolastica della terza media. «Mi misero in stanza con due compagni. Uno si spogliò. Vidi il suo sesso e ne rimasi ipnotizzata. Non riuscivo a staccare gli occhi. Lui se ne accorse e mi chiese: ti piace? Io dissi di sì. Mi disse, vieni qui. Ebbi il mio primo rapporto orale. L’altro ragazzo rimase a guardare. Io poi passai a lui. Alla fine vollero del denaro, sennò avrebbero raccontato la cosa agli altri. Diecimila lire per uno. Presero i soldi e raccontarono lo stesso e il viaggio di ritorno, in pullman, fu un delirio». Ogni stanza ha un colore diverso. Verdino in corridoio, giallino di qui, rosino di là. Anche gli armadi dei vestiti sono pastellini. Una radio ha due grosse labbra rosse che si muovono quando la radio è accesa. Ecco le scarpe. «Sì, non sono scarpe da onorevole». Sono accatastate, zatteroni rosa, o rossi, sgargianti, pantofole bianche pelosissime caldissime. Vladimir ride. Le serviranno scarpe adatte. Le scarpe sono la precisa espressione del viso, scriveva Pasquale Panella. Vladimir ride e ricorda del suo viso viola. «Ne ho prese, di botte, nella vita». Le ha prese a casa, perché qualche volta non ci si rassegna a un figlio così. Le ha prese a Foggia e a Roma, e a Londra. «Londra! Pensavo di stare al sicuro. La città di Boy George, capisci? Ero in the tube, in metro, e arrivano questi naziskin, ed erano pure italiani, del Nord. Mi chiedono se sono gay. Io rispondo in italiano, sperando fosse meglio. Gli dico: non ci vuole la palla di cristallo. Me ne hanno date tante, ma tante». La sfortuna: la metro si ferma alla metà esatta fra due stazioni. Immobile. Hanno avuto tutto il tempo di farle una faccia così. «Gli altri passeggeri avevano paura, li capisco. A casa la mia compagna di stanza, a Soho, spalancò gli occhi. Ero tumefatta, viola viola, e sanguinavo, e lei che era pittrice volle farmi il ritratto perché un viola così non l’aveva mai visto». I sentimenti. Vladimir ride e poi è seria e poi ride e poi accenna alle sorelle complici, quando lei era bimba, e poi ai genitori perché adesso va tutto bene: da una decina d’anni, a casa, si può parlare liberamente di tutto. Anche di uomini, di fidanzati, con un po’ di riguardo. «Ma la mia situazione sentimentale è più dissestata della Salerno-Reggio Calabria». Vedrà com’è dissestata la strada della rappresentanza popolare, e infatti dice: «Sembra l’isola dei famosi. Cioè, non avrei mai pensato di darmi alla politica che è una dimensione così poco artistica. Che uno pensa: nessuno più la vuole e allora va in Parlamento, come l’isola dei famosi, come Elisabetta Gardini». Eccola lì: la buonista. Tutti la lisciano, dicono che bella scoperta, che intelligente, che buona. Cattivella, invece. Sulla Gardini s’è visto. Poi arriva una telefonata: l’avvertono che al tal programma non c’è più la Santanché ma Teodoro Buontempo. «La Santanché si ritira? Sa di non poter accavallare le gambe come faccio io». Parla di politica. In Iraq guerra sporca. La Chiesa ingerisce. Berlusconi si fa i suoi affari. Prodi è una ventata di ottimismo. Diventa loquace, quasi logorroica, non più sorprendente. Poi una domanda: vuoi figli? «No». Mai voluti? «Mai». Perché? «Perché arriva sempre questo istinto di maternità... O paternità... E forse un bimbo è il vaso dentro cui riversare tutto l’amore di cui si è capaci... E allora...». E allora s’è fatto tardi. C’è da riordinare il tavolo colmo di carte, volantini, giornali. Ci sono tutte le cose da fare. Ci sono due gatti che hanno fame. Mattia Feltri