Il Sole 24 Ore 22/02/2006, pag.11 Alberto Negri, 22 febbraio 2006
Il Sole 24 Ore 22 febbraio 2006. Quanto durerà il fenomeno del fondamentalismo islamico? «Non si preoccupi, non molto, forse quaranta, cinquant’anni», così, con la sua tipica ironia, rispondeva a metà degli anni Ottanta Maxime Rodinson, marxista iconoclasta, uno dei più grandi orientalisti del secolo: in Egitto l’esperimento di Nasser, travolto anche dalla disfatta della guerra del ’67 con Israele, era già sepolto sugli scaffali della storia e la rivoluzione dell’Imam Khomeini aveva appena abbattuto nel ’79 il regime dello Shah a Teheran
Il Sole 24 Ore 22 febbraio 2006. Quanto durerà il fenomeno del fondamentalismo islamico? «Non si preoccupi, non molto, forse quaranta, cinquant’anni», così, con la sua tipica ironia, rispondeva a metà degli anni Ottanta Maxime Rodinson, marxista iconoclasta, uno dei più grandi orientalisti del secolo: in Egitto l’esperimento di Nasser, travolto anche dalla disfatta della guerra del ’67 con Israele, era già sepolto sugli scaffali della storia e la rivoluzione dell’Imam Khomeini aveva appena abbattuto nel ’79 il regime dello Shah a Teheran. L’era islamica stava soppiantando gli anni della decolonizzazione e ispirati a ideologie più familiari all’Occidente, come il nazionalismo e il socialismo. Altri studiosi, come Gilles Kepel, in anni più recenti, hanno parlato di fallimento o declino dell’Islam politico, sottolineando che i fondamentalisti non siano riusciti ad afferrare il potere che in pochi casi. In realtà, per restare in sella, il potere nel mondo musulmano si è fatto conquistare dall’Islam e lo sta utilizzando, come dimostrano gli eventi esplosi intorno alle caricature di Maometto. Pur avendo tutte le apparenze di uno scontro tra civiltà questa storia è una vicenda in gran parte politica. La mappa degli incidenti segnala che i Paesi coinvolti nelle violenze sono quelli dove i regimi hanno dei conti in sospeso con l’Occidente oppure alcune forze politiche stanno pilotando la questione per rafforzarsi e destabilizzare chi è al comando. La violenza è stata strumentalizzata dagli Stati o dai movimenti che respingono la presenza occidentale, americana ed europea, in Medio Oriente, nei punti nevralgici di crisi, nelle aree ad alto valore aggiunto dove Corano fa rima con metano. Persino Osama bin Laden, nel suo ultimo proclama sull’Iraq, appare in ritardo su questo capitolo imprevisto della Jihad. A Damasco, dove la piazza ha bruciato bandiere occidentali e incendiato le sedi diplomatiche di Danimarca e Norvegia, il regime di Bashar Assad si è presentato come un difensore dell’Islam. Questo atteggiamento è quanto meno sorprendente da parte di un regime che nell’82 sterminò migliaia di Fratelli Musulmani durante la rivolta di Hama e adesso vuole apparire in prima linea nella difesa del Profeta. Ma è perfettamente spiegabile da parte di un potere messo sotto pressione dall’accusa di esser il mandante dell’assassinio dell’ex premier di Beirut Rafic Hariri e che vorrebbe riprendere il controllo il Libano alleandosi con tutte le forze anti-occidentali. Il regime siriano ha due caratterirstiche eccezionali: è l’ultimo governo baathista rimasto in piedi dopo la caduta di Saddam ed è dominato da musulmani alauiti, una minoranza del 10-12% in Siria, considerati a lungo una sorta di setta eretica dell’Islam. Per la famiglia Assad, legata all’Iran sciita degli ayatollah, gli islamici fondamentalisti, appartenenti alla maggioranza sunnita, possono essere dei nemici mortali, come è avvenuto in passato, oppure diventare degli alleati preziosi da manovrare sul fronte libanese, su quello iracheno e internazionale. impensabile che a Damasco, nel mirino anche di alcuni stati europei per la questione Hariri, si svolgano manifestazioni spontanee e fuori controllo. La crisi delle vignette esplosive coinvolge direttamente l’Europa continentale che al momento dell’intervento Usa in Iraq si contrapponeva alla coalizione anglo-americana. Tre anni dopo le cose sono molto cambiate. Gli europei si sono impegnati in un braccio di ferro con l’Iran sul nucleare, sostenendo la necessità di deferire Teheran al Consiglio di sicurezza dell’Onu, in Afghanistan le forze della Nato si stanno sostituendo in molte aree ai soldati americani e presto si troveranno nella linea del fuoco contro i Talebani e le rimanenti milizie di Al Qaida e Bin Laden, in Palestina l’Unione impone strette condizioni per continuare a mandare i suoi aiuti dopo la vittoria di Hamas. L’Europa appare quindi agli occhi dei musulmani molto meno neutrale e molto più interventista in Medio Oriente, con un avvicinamento agli Stati Uniti e un coinvolgimento da parte di Washington nella prospettiva di un progressivo ritiro americano da Baghdad. Non c’è da stupirsi delle proteste in Afghanistan e degli attacchi ai militari occidentali. Il Governo di Kabul, uscito a settembre da farraginose elezioni, non è in grado di controllare una piazza dove le spinte fondamentaliste sono molto forti e in Parlamento siedono non pochi ex talebani, che si sono riciclati in appogggio alla presidenza di Karzai. L’integralismo in Afghanistan non è morto nel 2001 con la fuga del Mullah Omar. Le manifestazioni incendiarie afghane hanno avuto un’eco immediata in Pakistan dove il generale Pervez Musharraf è capo di uno Stato fondamentalista per definizione. Musharraf, salito al potere con un golpe nel ’99, avrebbe voluto essere l’Ataturk del Pakistan, il nuovo leader secolarista di un Paese dove però gli islamici sono ramificati nella società e svolgono un ruolo determinante nelle province alla frontiera con il Pakistan, santuari dell’integralismo e di Al Qaida. In Iran l’integralismo khomeinista sta giocando forse la partita decisiva per la sua sopravvivenza politica e la vicenda delle caricature del Profeta serve a tenere alta la tensione intorno a un regime che non è riuscito a riformarsi. Sfiorita la breve stagione di rinnovamento della presidenza Khatami, con il neo-presidente Ahmadinejad si è tornati al fondamentalismo di Stato duro e puro, agli slogan anti-occidentali, alle parole d’ordine contro Israele che sfociano nell’anti-semitismo. Ogni occasione è buona per i pasdaran, le Guardie della rivoluzione, per le milizie dei basiji e gli Hezbollahi di gettare benzina sul fuoco. In Libia, invece, l’Islam di Stato non sembra essere riuscito a cavalcare la protesta a tenerla sotto controllo, al contrario di quanto è successo in Egitto e in Algeria, dove gli islamici negli anni Novanta erano arrivati a vincere le elezioni prima che il Paese precipitasse in un decennio di terrorismo e massacri. La ricetta di Gheddafi per tenere a freno i "suoi" fondamentalisti - Libro Verde, Corano e petrolio - sta mostrando la corda: la svolta filo-occidentale del Colonnello gli ha garantito il ritorno degli investimenti americani ma non la sicurezza di designare il suo successore. L’Islam di Stato e di Governo mobilita, controlla e, in qualche misura, serve anche a diluire la tensione, quando il manovratore sa come regolamentare la valvola di sfogo della protesta. E il caso della Turchia dove l’Akp, il partito di fondamentalisti al potere, può riempire le piazze con la sua base elettorale ma anche svuotarle quando serve tornare a vestire un abito più adatto ai negoziati per l’ingresso in Europa. La Turchia è un esempio di democrazia musulmana avanzata che però non esclude, nel mix di secolarismo e fondamentalismo, anche l’intolleranza. In questa vicenda i veri perdenti sono i laici, i mass media più aperti e critici nei confronti dei vari regimi che usano l’Islam come alibi per legittimare governi corrotti e autoritari. E così che le piazze hanno via libera per sfogarsi contro gli infedeli. Ma come diceva Rodinson, citando Epicuro in quella lontana conversazione di vent’anni fa: «L’empio non è colui che nega gli dei della folla, è colui che aderisce all’idea che la folla si fa degli dei». Alberto Negri