Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  febbraio 22 Mercoledì calendario

Fatte non foste a viver da scienziate. La Stampa 22 febbraio 2006. Per riassumere quanto sta accadendo, tocca adoperare una parola logora e abusata: polemica

Fatte non foste a viver da scienziate. La Stampa 22 febbraio 2006. Per riassumere quanto sta accadendo, tocca adoperare una parola logora e abusata: polemica. Eppure stavolta bisogna, perché la disputa è effettivamente profonda, e potrebbe condurre a una conclusione che spariglia e sbaraglia il pensiero dominante di questi ultimi anni. La possibile conclusione è questa: il politically correct è una forma più sottile di discriminazione, perché sostituisce un tabù con un altro e non meno nocivo tabù, e censura a censura. La polemica in questione nasce appunto da un «visto, non si stampi» a opera della prestigiosa rivista scientifica Science (un po’ meno prestigiosa, e un po’ più cauta, da quando ha pubblicato e poi sconfessato un clamoroso falso sulla produzione di staminali da parte del sudcoreano professor Hwang Woo-suk). DOMANDA «SCANDALOSA» Dunque. Science riceve un saggio del biologo di Cambridge Peter Lawrence, il quale pone una «scandalosa» domanda (perché ai vertici della carriera scientifica gli uomini sono molto più numerosi delle donne?) e fornisce una «scandalosa» risposta (per discriminazione, ma anche o soprattutto per differenza fra pensiero femminile e pensiero maschile). La rivista esamina il paper per sette lunghi mesi, comunica al professore che lo pubblicherà, gli manda addirittura le bozze da correggere, poi per email lo informa che no, il suo saggio non sarà pubblicato, perché «non fornisce una strategia per affrontare il problema del genere» (sottinteso: maschile e femminile). Peter Lawrence si infuria, accusa Science di conformismo, di avere censurato il testo per motivi politici e non scientifici, e in definitiva di non avere «gli attributi» (quelli che in effetti dimostrano che una differenza di genere c’è...). Poi pubblica comunque, online, nel sito della Public Library of Science Biology. E riceve decine di email di commento, protesta, risposta. Decine, e qualificatissime. A sorpresa, ma forse non è una sorpresa, sono proprio le donne a plaudire al suo coraggio, e a schierarsi contro il tabù «politicamente corretto» che imporrebbe di negare ogni differenza fra uomini e donne. una donna, l’indiana Reena Kapoor, a complimentarsi con Lawrence per non essersi lasciato intimorire dal «linciaggio» (testuale) subito da Larry Summers, il rettore di Harvard che parlò di minore attitudine matematico-scientifica delle donne, e poi pentito abiurò. Ed è a dire il vero un’altra donna, la biologa del Mit Nancy Hopkins, ad accusare il collega inglese di «mescolare autentiche differenze genetiche fra maschi e femmine con stereotipi vecchio stile, perpetuando così proprio il problema che denuncia, quello della scarsità di donne al top del mondo scientifico». In effetti, Peter Lawrence non separa i fatti dalle opinioni: al contrario, fa una grande purea di test attitudinali e comune buonsenso, di orgoglio scientifico e pregiudizio ideologico. Pone il problema in maniera sfocata - così come è grossolana ogni «provocazione» (altra parola orribile, sfibrata). Però lo pone. Partendo da un’osservazione: fra gli studenti di biologia e altre scienze le ragazze sono il 60%, ma al vertice della carriera, fra i professori, le donne sono soltanto il 10%. Dunque c’è un «tubo che perde» (questa la sua metafora), e dare la colpa soltanto alla discriminazione è per lui un esempio dell’eterna, umana tendenza a «ignorare l’esperienza e a costruirsi delle false credenze». UNA FALSA CREDENZA L’esperienza - anche nel senso di esperimenti scientifici - proverebbe che esiste una differenza fra cervello, e pensiero, maschile e femminile. Mentre la falsa credenza sarebbe che un giorno, abolita ogni discriminazione, uomini e donne si spartiranno in parti uguali ogni professione, ricerca scientifica inclusa: un sogno, un’utopia «sostenuta dal culto della correttezza politica, che ignora i fatti della vita» e discrimina proprio quando pretende di proteggere, di equiparare. L’immagine è letteraria, attinge agli Spettri di Ibsen, alle «idee morte» e ai «pregiudizi obsoleti» che permangono come fantasmi, e ostacolano il libero pensiero come granelli di sabbia in un ingranaggio. Il saggio si intitola infatti, ibsenianamente, Uomini, donne e spettri nella scienza. Per esempio, nella selezione dei ricercatori scientifici vengono usati, dice Lawrence, test uguali per tutti, che proprio perché non tengono in alcun conto le diverse caratteristiche della mente femminile finiscono per privilegiare gli uomini: in nome dell’uguaglianza, ma di una uguaglianza fasulla e dannosa. Al contrario, ammettere la differenza significherebbe fornire maggiore opportunità, nel mondo scientifico, «agli individui meno aggressivi, più riflessivi, più creativi», cioè più femminili. Individui di entrambi i sessi, perché il pensiero femminile sarebbe presente, in percentuali diverse, sia negli uomini sia nelle donne. SISTEMATICIT E EMPATIA E qui Lawrence cita le ricerche dello psicologo di Cambridge Simon Baron-Cohen, che interviene poi anche lui, con mille cautele politicamente corrette, nella polemica online intorno al saggio incriminato. Baron-Cohen ha misurato il quoziente di Sistematicità e di Empatia, concludendo che il pensiero sistematico è prevalente fra gli uomini, mentre il pensiero empatico è prevalente fra le donne. Premesso che gli stereotipi sono antiscientifici e ogni individuo è diverso dagli altri, lo psicologo conclude però che il 60% delle donne ha un cervello «femminile» (più comunicativo) e il 60% degli uomini ha un cervello «maschile» (più analitico, ma anche più ossessivo: per questo l’autismo è prevalentemente maschile, perché è una variante estrema di caratteristiche appunto maschili). Dalla primissima infanzia alla vecchiaia, dalle differenti reazioni a test spaziali fra neonate e neonati fino alla «femminilizzazione» degli anziani ormai privi di testosterone, Peter Lawrence porta velocemente prove e controprove alla sua teoria della differenza. Che non è necessariamente a danno delle donne: lui, per esempio, denuncia la selezione accademica «maschile» anche in campi più empatici e dunque più «femminili» come la psicologia. E conclude che, se la creatività è femmina, tutta la scienza trarrebbe giovamento da una maggiore percentuale di scienziati femmine, o almeno femminili nel pensiero. QUESTIONI SOSPESE Innumerevoli, come si vede, le questioni che Lawrence lascia sospese: che cos’è innato e che cosa invece frutto di condizionamenti sociali e culturali? Che senso ha la «discriminazione positiva» (quote rosa incluse)? Perché etichettare come «maschile» e «femminile» i diversi talenti? Ma scardinare il tabù del politically correct ha senza dubbio il merito di aprire il dibattito, e sgabbiare il pensiero. Giovanna Zucconi